martedì 12 ottobre 2010

"Dogville" di Lars von Trier: un'agghiacciante parabola sulla ferocia umana

Dogville (2003) è un film caustico, radicalmente pessimista e che quasi fastidiosamente non offre mai allo spettatore alcun tipo di speranza o riconciliazione. La prima parte della trilogia sugli Stati Uniti d'America pensata da von Trier (dopo Manderlay del 2005, manca ancora all’appello l’ultimo episodio), è un'opera sconfortante come poche altre per il modo in cui descrive analiticamente l'innata ferocia che alberga nell'animo umano. Da questa prospettiva può venire in mente, anche se si tratta di due film diversissimi, lo sconvolgente Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah con Dustin Hoffman.
Grace (un'ottima Nicole Kidman) giunge improvvisamente nella cittadina di Dogville, isolata ai piedi delle Montagne Rocciose e abitata da un piccolo gruppo di persone. La ragazza sta scappando da alcuni misteriosi gangster e ottiene ospitalità dopo un periodo di prova di due settimane in cui dimostra di poter essere utile alla comunità. Inizialmente le cose sembrano andare bene e Grace appare felicemente integrata. Quando però si susseguono gli avvisi della polizia che la ricerca per conto della banda di criminali, uno dopo l'altro gli abitanti di Dogville cambiano atteggiamento nei suoi confronti, vedendo in lei una sconveniente minaccia. Invece di denunciarla o allontanarla, cominciano a sfruttarla costringendola a strenuanti orari di lavoro, fino ad arrivare a legarla come un cane e a stuprarla con disgustosa regolarità.

Diviso in 9 capitoli e un prologo, il film si avvale di una scenografia di stampo teatrale in cui dominano gli spazi vuoti e si alimenta di una struttura narrativa ridotta quasi all'osso che viene puntualmente portata avanti da un narratore onnisciente. La ricchezza del linguaggio utilizzato da quest'ultimo è inversamente proporzionale alla povertà delle immagini: ciò porta ad una inconsueta stimolazione dell'immaginazione di chi guarda che rimanda in parte all'esperienza della fruizione letteraria. Non puntare affatto sulla componente scenografica permette a von Trier, oltre che di demitizzare nelle fondamenta la classica macchina dei sogni hollywoodiana, di concentrarsi sui personaggi e le tetre dinamiche dei rapporti che li legano, portando per mano lo spettatore in un mondo riprovevole, persino assurdo e paradossale nella la sua crudeltà. Fino all'agghiacciante finale. La durata di quasi tre ore in alcuni momenti si fa sentire, ma il cineasta danese riesce nel complesso a costruire un racconto minimalista e disperante di indubbia forza.

5 commenti:

  1. Un capolavoro. Mi lasciò senza fiato la prima volta che lo vidi, tanto che non potei fare a meno di riguardarmelo subito (avevo molto tempo libero in quella giornata!).

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  2. Sì, un grande film senza dubbio e che merita più di una visione!

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  3. eh, qua c'è uno dei miei miti!
    su Lars ho scritto anche il mio unico articolo monografico. non è roba alla tua altezza (ho letto qualcosa dei tuoi) ma magari può contenere qualche spunto interessante: http://robydickwritings.blogspot.com/2011/01/ce-del-genio-in-danimarca-lars-von.html
    è il blog dove mi esercito a scrivere ;-)

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  4. adoro Lars, è questo è il suo film che amo di più.

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  5. concordo in pieno, anche per me questo è il più bel film di von Trier. Un film molto bello e anche significativo dal punto di vista teorico, come riflessione sulle possibilità del mezzo cinematografico.

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