domenica 30 gennaio 2011

"The Green Hornet" di Michel Gondry


Era senza dubbio uno dei film più attesi dell’inizio di questo nuovo anno, The Green Hornet. La curiosità circa l’apporto che Michel Gondry, fra i cineasti più visionari degli ultimi anni, avrebbe potuto dare alla causa di un blockbuster in 3D da 120 milioni di dollari dedicato al prototipo dei supereroi mascherati transmediali, nato nel 1936 per la radio e poi sviluppatosi nelle successive decadi tra televisione, cinema e fumetto, era infatti davvero molta. 
Costato poco meno del triplo di tutta la precedente filmografia di Gondry, The Green Hornet racconta la storia del fannullone Britt (Seth Rogen), unico figlio del magnate James Reid che alla morte del padre eredita l’imponente impero mediatico familiare. Incompetente e completamente inadeguato al prestigioso ruolo che si ritrova improvvisamente a ricoprire, il nostro con l’aiuto del misterioso Kato, ex meccanico personale del padre dalle molteplici e insospettabili abilità, diventa una sorta di supereroe sfigato e incapace, mosso dalla voglia di divertirsi combinando guai più che da solidi principi etico-morali.
Coadiuvato dalla sceneggiatura firmata dalla coppia formata da Seth Rogen e Evan Goldberg (la stessa degli scripts di Suxbad e Strafumati), Gondry va forse nell’unica direzione che gli era possibile percorrere in questo particolare contesto. Decide di non prendersi affatto sul serio: gioca con gli stereotipi del classico superhero-movie dilettandosi nel ribaltarli costantemente e spingendo con forza sul registro parodistico. Gondry è pur sempre Gondry, insomma, e non avrebbe certo potuto portare avanti un’operazione alla Nolan. Il risultato complessivo è un film divertente, a tratti persino esilarante, che scorre piacevolmente senza avere alcuna caduta di ritmo per le sue due ore di durata. Tra una serie di riusciti passaggi comici, è d’obbligo citare perlomeno la spassosissima sequenza di apertura che vede protagonisti il boss della malavita losangelina Benjamin Chudnofsky (l’irresistibile Cristoph Waltz nei panni del personaggio di gran lunga più interessante del film) e l’irrispettoso neocriminale James Franco.


Del Gondry cui eravamo abituati non c’è però quasi traccia, anche se il suo personale tocco si palesa felicemente in qualche momento particolarmente inventivo (la sequenza degli split-screens che si generano l’uno dall’altro o l’animazione che verso la fine del film mostra il ragionamento in progress di Britt Reid/Seth Rogen) e nel ricorso alle musiche rock dei Rolling Stones, dei White Stripes o di Johnny Cash. È inutile negare, ad ogni modo, che da un ingegnoso sperimentatore come il cineasta transalpino, anche in un ambito squisitamente commerciale come questo, era lecito aspettarsi molto di più sul piano visivo. Chi sperava in una messa in scena fantasiosa che desse nuova linfa all’estetica tipica del film di supereroi rimarrà deluso. E anche parecchio.


Altra nota dolente riguarda poi l’uso del 3D, molto scolastico e che non aggiunge praticamente nulla alle possibilità espressive di The Green Hornet. Da questo punto di vista, l’immersivo e visivamente affascinante Tron: Legacy (uscito lo scorso 29 dicembre) appartiene davvero ad un’altra categoria. La sensazione è che Gondry sia rimasto intrappolato nelle strette maglie del più classico dei film su commissione senza trovare la giusta via per imporre il proprio sguardo autoriale. Ammesso che abbia realmente sentito l’esigenza di farlo. 
A questo punto non resta che augurarsi che grazie a questo frivolo divertissement, poco più che un atipico, frizzante pop-corn movie privo di qualsivoglia pretesa artistica, il regista di Versailles riesca nell’immediato futuro ad avere carta bianca per progetti personali che siano in continuità con la propria immaginifica poetica estetica. Anche se, a ben vedere, il finora modesto risultato al botteghino statunitense (70 milioni di dollari a 15 giorni dall’uscita) potrebbe non fargli conquistare un credito di rilievo all’interno del sistema degli Studios.

mercoledì 26 gennaio 2011

Steven Soderbergh: un buon mestierante con velleità d'autore


Il curioso caso di Steven Soderbergh. Prendendo in prestito il titolo del sopravvalutato film di David Fincher uscito da noi nel 2009, ci sembra che sia possibile rendere nel migliore dei modi, con sintetica efficacia, l'ambiguità della figura del regista nato ad Atlanta nel 1963. Il nostro vuole essere un tentativo di comprendere la personalità e lo spessore artistico (più o meno sostanzioso, a seconda dei punti di vista) di un cineasta per molteplici aspetti davvero curioso, di difficile catalogazione e, in generale, decifrabile con fatica.
Uscito inaspettatamente dal festival di Cannes del 1989 come il grande trionfatore con la sua opera prima Sesso, bugie e videotape (Palma d'oro per il miglior film e premio per il miglior attore a James Spader), viene subito salutato dalla critica come l'enfant prodige del cinema indipendente statunitense. Pochi soldi, mezzi tecnici esigui, tante belle idee: Soderbergh riesce a conquistare il cuore del presidente della giuria Wim Wenders e al contempo ad attirare su di sé, di lì a poco, l'attenzione di addetti ai lavori e appassionati cinefili. Davvero niente male per un ventiseienne al suo primo film. Questo dolente affresco di una provincia americana in cui la quotidianità corrode e le persone sono accomunate dall’essere sole, insoddisfatte e con diversi problemi nei rapporti interpersonali, carica molto le aspettative della critica. La curiosità di vedere i prossimi passi di Soderbergh, a questo punto, è davvero molta. Fatto sta che per sette anni buoni il nostro non ne azzecca più una: Delitti e segreti (1991), Piccolo grande Aaron (1993), Torbide Ossessioni (1996), Schizopolis (1997) sono per differenti motivi, e in varie misure, dei flop artistici ancor prima che commerciali.


Poi l'inaspettata rinascita, con Hollywood; e più precisamente con un film sofisticatamente mainstream come Out of Sight (1998), dove la storia del coinvolgimento amoroso tra un affascinante rapinatore di banche (George Clooney) e una sexy e tenace agente di polizia (una Jennifer Lopez in uno dei pochi ruoli degni di nota della sua carriera cinematografica) viene confezionata con gran classe, avvincente ironia ed uno stile cool quanto basta per catturare il pubblico giovanile.
Soderbergh sembra aver trovato all'interno dell'industria hollywoodiana la propria dimensione, certo molto lontana dallo statuto di “autore indipendente” che gli era stato attribuito fin troppo frettolosamente in seguito al suo sorprendente esordio. Sulla stessa lunghezza d'onda di Out of Sight si muove il primo capitolo della trilogia su Ocean e la sua banda di ladri gentiluomini, Ocean's Eleven (2001). Il remake di Colpo Grosso è infatti un frizzante e divertente tentativo (in buona parte riuscito) di riunire una serie sterminata di star di grosso calibro all'interno di una pellicola senza pretese, con l'intento di intrattenere in modo elegante puntando dichiaratamente quasi tutto sul carisma degli interpreti (George Clooney, Brad Pitt, Julia Roberts, Matt Damon, Andy Garcia, tutti in un colpo solo). Se il primo esperimento risulta gradevole, il secondo capitolo (Ocean's Twelve, 2004) è sterilmente contorto nella struttura, stordisce lo spettatore a suon di colpi di scena di discutibile interesse ed indugia eccessivamente su vezzi e smorfie delle star. Con Ocean's 13 (2007), che può contare persino sulla presenza di Al Pacino, la musica cambia e si torna ai livelli di Ocean's Eleven.


Oltre ad essere in grado di dirigere prodotti leggeri e scanzonati gestendo con abilità attori di prim'ordine, però, nel frattempo Soderbergh ha dimostrato anche di poter dare vita con eguale forza a pellicole in cui l'impegno sociale ha un peso decisivo, nonostante coesista immancabilmente con le esigenze di Hollywood. Si pensi a Erin Brockovich o a Traffic (entrambi del 2000). Il primo racconta  la vera storia (naturalmente romanzata) della donna che dà il titolo al film, la quale, sola, disoccupata e con tre figli a carico, finisce per divenire una paladina dei diritti civili dopo aver iniziato un po' per caso a lavorare come assistente in uno studio legale; il secondo affronta il tema della piaga della droga che dal Messico giunge agli Stati Uniti, mostrando la corruzione di polizia e politica da una parte e dall'altra della dogana. I due film sono opere solide che emozionano, commuovono, fanno riflettere sulla società americana di oggi. Ma sono anche piuttosto evidentemente costruite per piacere ad un pubblico vasto e ai membri dell'Academy, lasciando di conseguenza un po’ a desiderare in quanto a profondità. I risultati a tal proposito parlano da sé: entrambe le pellicole superano i 120 milioni di dollari solo al botteghino americano, Julia Roberts vince l'Oscar come miglior attrice per Erin Brockovich, mentre Traffic porta a casa addirittura quattro statuette, fruttando il premio per miglior regia a Soderbergh e per il miglior attore non protagonista a Benicio Del Toro.


Arrivati a questo punto, sembrerebbe di aver definitivamente decifrato la figura di Steven Soderbergh. Eppure, il regista dopo Ocean's Eleven stupisce ancora. A partire dal 2001, infatti, prende corpo la sua ormai celebre tattica: vale a dire l'utilizzo della assai remunerativa saga di Ocean per finanziarsi progetti personali, sulla carta anche piuttosto rischiosi, alcuni dei quali molto più vicini allo spirito indipendente del suo esordio. Così Ocean's Eleven porta a Full Frontal e Solaris (ambedue del 2002), Ocean's Twelve è il preludio a Bubble (2006) e Intrigo a Berlino (2007), Ocean's 13 è la premessa economicamente necessaria al deludente film-fiume su Che Guevara,  presentato nella sua versione integrale al festival di Cannes del 2008 e poi distribuito in tutto il mondo diviso in due parti (Che – L'argentino e Che – Guerriglia).
Ad eccezione di Bubble opera molto interessante, girata interamente in digitale nell'arco di due sole settimane e che si avvale di attori non professionisti ricollegandosi a Sesso, bugie e videotape per come riesce a rappresentare una società che sta agli antipodi del Mito e dell'American way of life gli altri lavori sono una grossa delusione. Alla luce di questi ultimi anni, la sensazione che si ha è che nel momento in cui Soderbergh decide di alzare veramente il tiro, il più delle volte prende degli abbagli, non riuscendo a gestire col talento la misura delle proprie ambizioni. In Full Frontal tenta di rifarsi alla tradizione meta-cinematografica dei maestri del cinema europeo (Godard in primis), ma il risultato è solo a tratti affascinante, disvelando alla lunga la propria pochezza. È poi un mistero il motivo per il quale abbia deciso di rifare, ovviamente banalizzandolo, il capolavoro di Tarkovskij del 1972, così come colpisce l'inutilità di quel mal riuscito omaggio al cinema classico hollywoodiano degli anni quaranta che è Intrigo a Berlino.


Ora, il film su Che Guevara sembrava la giusta occasione per il grande riscatto, ma il troppo rispetto per la figura di Guevara ha finito per paralizzare Soderbergh, il quale nel condivisibile tentativo di rendere la figura del rivoluzionario e la sua guerra di liberazione nel modo meno epico e più anti-spettacolare possibile, rimane imprigionato all'interno di una struttura piatta, fredda, totalmente priva di sussulti.
Per chi scrive, Soderbergh sembra ormai rivelarsi, a vent'anni dal suo esordio, come uno dei registi più sopravvalutati e discontinui del panorama statunitense, e probabilmente sarebbe per lui un bene se prendesse definitivamente atto di  essere, quando vuole, un buon, a volte anche un ottimo, mestierante. Niente di più, niente di meno.

Articolo pubblicato nel numero 14 di Cinem'Art (Maggio 2009)

martedì 25 gennaio 2011

"Kill Bill: volume 1" di Quentin Tarantino

  

Litri di sangue che allagano il set fino a colpire la macchina da presa e a “impallare” il punto di vista dello spettatore come fossimo in un cruento videogame, tanta azione, nessun momento riflessivo e, strano a dirsi per un film di Quentin Tarantino, poche parole (l'intera seconda parte del film è  dedicata alla lotta di Black Mamba/Uma Thurman contro il boss della Yakuza Lucy Liu e il suo temibile entourage). Delle lunghe e davvero ben scritte chiacchierate tra i personaggi de Le Iene, Pulp Fiction o Jackie Brown, con tanto di dissertazioni surreali su hamburger, dischi musicali e cultura pop in generale, rimane ben poco. Non mancherà comunque l'occasione per il riscatto, da questo punto di vista, nel volume 2 di Kill Bill: chi non ricorda infatti il discorso di Bill a Black Mamba sulla differente filosofia alla base di Superman e Spiderman?
In Kill Bill vol. 1, il primo episodio di un dittico che il regista avrebbe voluto presentare nelle sale in un unico film, Tarantino si diverte a giocare con molte delle possibilità espressive offerte dal cinema (passaggio dal bianco e nero al colore, uso dello split-screen o delle figure umane come silhouettes, ricorso ad un inserto animato). L'obiettivo dichiarato, come ci sembra sia in tutto il resto del suo cinema, è quello di divertire e divertirsi senza tante pretese, offrendo una gamma sterminata di suggestive soluzioni visive che non possono non ammaliare anche lo spettatore più scettico. La semplice storia della vendetta di una Uma Thurman miracolosamente scampata ad uno sterminio in cui sono stati uccisi, nel giorno delle prove del suo matrimonio, sposo e tutti gli invitati, è raccontata con un gusto estetico eccitante e fuori dal comune. Chi cerca in Tarantino qualcosa che vada oltre la forma e la potente rielaborazione personale di un certo cinema, probabilmente non ha capito bene con che regista ha a che fare. Ma in fondo ci va già più che bene così.

Articolo pubblicato su moviesushi

lunedì 24 gennaio 2011

"Grindhouse - A prova di morte" di Quentin Tarantino


Cinema allo stato puro e adrenalico nel senso nobile del termine, Grindhouse – A prova di morte è una vera e propria gioia per gli occhi. Appassionato e ludico omaggio ai film di serie Z degli anni '70 proiettati nelle sale di infima categoria che Tarantino ha frequentato sin da piccolo, il film è un esemplare saggio di regia. In fin dei conti per un'ora e tre quarti succede poco o nulla: due gruppi di ragazze, uno del Texas e l'altro del Tennessee, si imbattono nel bizzarro e diabolico Stuntman Mike (Kurt Russell), ex controfigura di serie televisive di bassa lega che passa con disinvoltura la propria vita ad uccidere bellezze incontrate nei più svariati luoghi degli Stati Uniti. Nel mezzo parole, parole e ancora parole in frenetici discorsi tra giovani donne disinibite che parlano di sesso, uomini e cinema (film grindhouse di culto come Zozza Mary, pazzo Gary o Punto Zero).
Eppure Quentin Tarantino riesce a rendere tutto questo un'esperienza unica, ricorrendo ad uno stile di regia movimentato e sensuale e ad una colonna sonora come al solito straordinariamente cool. Lo spettatore viene scaraventato dentro il film sin dal primo minuto e inserito con forza all'interno di una molteplicità di citazioni e personali ossessioni tarantiniane (vedi ad esempio il feticismo per i piedi femminili).


I dubbi sul senso generale dell'operazione è anche legittimo che sorgano, fatto sta che Tarantino continua a dimostrare film dopo film di essere un fuoriclasse della macchina da presa, riuscendo a padroneggiare il mezzo filmico come solo Paul Thomas Anderson (Magnolia, Il Petroliere) e Darren Aronofsky (Requiem for a Dream, Black Swan) hanno negli ultimi quindici anni dimostrato di saper fare nel contesto statunitense. Almeno due sequenze da antologia: lo striptease mozzafiato che Vanessa Ferlito concede a Kurt Russell e l'inseguimento in macchina finale.

Articolo pubblicato su moviesushi

sabato 22 gennaio 2011

Alla scoperta del cinema di Kathryn Bigelow


Kathryn Bigelow (San Carlos, California, 1951) è una delle pochissime registe donne affermatesi negli ultimi anni nel panorama cinematografico mondiale, ha accesso a budget il più delle volte molto consistenti  ed è considerata piuttosto unanimemente dalla critica internazionale, che si divide invece sul complessivo valore di molte delle sue opere, come una sublime cineasta (in particolar modo di sequenze d’azione) dotata di  una consapevolezza linguistico-stilistica e di una padronanza del mezzo cinematografico fuori dal comune.
Figlia di un dirigente di una fabbrica di vernici e di una bibliotecaria, è una personalità artistica eclettica: inizia a dipingere all’età di sette anni e frequenta per due anni il San Francisco Art Institute per poi trasferirsi ventenne a New York, usufruendo di una borsa di studio per l’Indipendent Study Program del Whitney Museum. Qui si forma come pittrice, ha legami con personalità di spicco del mondo dell’arte quali Rauschenberg,  Serra, Acconci e la scrittrice Susan Sontag. In questo periodo entra in contatto con il gruppo concettuale d’avanguardia Art and Language e si interessa alla filosofia e alla semiotica, salvo scoprire di essere attratta principalmente dal linguaggio delle immagini in movimento: nel 1981, allieva del noto regista Milos Forman, ottiene la laurea in studi cinematografici alla Columbia University.
The Set-Up (1978), il suo primo lavoro di diciassette minuti in cui si interroga sulla fascinazione della violenza e sulle potenzialità espressive del cinema, è un esercizio teorico evidentemente influenzato da un approccio decostruzionista derivato dai suoi studi semiotici. Il primo lungometraggio The Loveless (1981, scritto e girato a quattro mani con Monty Montgomery), solido biker movie ambientato nella provincia americana degli anni cinquanta, deve invece molto alla sua formazione pittorica (diverse inquadrature sembrano infatti dei quadri di Hopper e la macchina da presa quasi sempre fissa ha lo scopo di rievocare l’immobilità delle opere pittoriche), facendo riferimento per il tema trattato ai b-movies di produzione cormaniana e citando esplicitamente a più riprese Scorpio Rising (1963, Kenneth Anger), una delle opere più apprezzate dell’avanguardia cinematografica americana.


Il buio si avvicina (1987), in fondo una storia d’amore tra una sensuale vampira e un ragazzo di provincia da lei morso e trasformato, è ancora un b-movie ma segna una svolta fondamentale nella carriera della Bigelow. Oltre ad essere un atipico horror dalle sottili metafore e allegorie socio-politiche che si intreccia, in particolar modo nella parte finale, con codici linguistico-visivi tipici del western (l’ibridazione è una caratteristica importante del cinema bigelowiano), è anche la pellicola che fa intravedere per la prima volta le sue grandi qualità registiche e il suo straordinario talento visivo. Utilizzo virtuoso di carrelli laterali, macchina a mano che si muove in modo spericolato, piani-sequenza conditi all’interno di un montaggio piuttosto deciso e spesso molto rapido: queste tecniche qui ancora un po’ grezze, alle quali si aggiungerà perlomeno un ricorso frequente alla soggettiva, con il passare degli anni verranno affinate e utilizzate sempre più sapientemente e consapevolmente, raggiungendo vette inusitate in Point Break (1991) e soprattutto in Strange Days (1995).


Prima dei due film appena citati la Bigelow gira Blue Steel (1990), thriller d’azione in piena regola, adrenalinico e teso, che vede come protagonista assoluta una donna poliziotto tenace, coraggiosa ed istintiva. Da qui in avanti la cineasta statunitense avrà sempre un particolare occhio di riguardo per i personaggi femminili (assenti, non a caso, solo nei film bellici degli anni 2000), pur  muovendosi costantemente all’interno di generi tipicamente maschili.
Tornado alla questione stilistico-estetica, di Point Break, avvincente e adrenalinico action movie ambientato nel mondo del surf, non si può non ricordare in primis la lunga sequenza mozzafiato dell’inseguimento a piedi tra i due protagonisti, che si alimenta di un sublime mix di violenti carrelli in avanti, soggettive traballanti e steadicam dai movimenti irrequieti; di Strange Days, spietato affresco apocalittico di un futuro prossimo venturo (simbolicamente la vigilia dell’anno 2000) in cui il contesto multirazziale di Los Angeles è dominato da fratture sociali e di classe che appaiono insanabili, indimenticabili sono invece le sequenze “dello Squid”: fluidissime, poco montate e mascherate abilmente da piani sequenza mediante qualche impercettibile passaggio risolto con panoramiche molto veloci. La complessità di un film come Strange Days ad ogni modo, per evidenti motivi di spazio, non può essere analizzata in questa sede.


Il mistero dell’acqua (2000) alterna con grande efficacia drammaturgica due piani temporali legati tra loro a livello geografico (le americane isole di Shoals) ed emotivo (esperienze di morte, sensi di colpa e rapporti familiari molto tesi), segnalandosi principalmente per l’affascinante narrazione a tratti fortemente ellittica (una novità per la Bigelow) e per il profondo e conturbante disagio esistenziale che emana ogni sua sequenza. Di K-19 in estrema sintesi si ricordano, oltre alla macchina da presa che si muove con grande eleganza all’interno degli stretti spazi del sottomarino, il coraggio che ha portato la cineasta a raccontare un episodio della Guerra Fredda, per molti anni sconosciuto, esclusivamente dal punto di vista della marina sovietica, sottolineando a più riprese l’eroismo dei loro marinai, alcuni dei quali sacrificarono la propria vita per scongiurare una guerra atomica. In The Hurt Locker (2008), l’ultimo intenso lungometraggio, sullo sfondo della guerra in Iraq si esalta invece l’eroismo dei marines americani (volontari) della sezione anti-bome, che ogni giorno rischiano la vita, salvandone delle altre, per disinnescare ordigni esplosivi lasciati dai ribelli locali. Attraverso un approccio diaristico, l’obiettivo che si pone la cineasta statunitense è quello di riportare il più fedelmente possibile (non a caso ha affidato lo script al reporter bellico Mark Boal) momenti della vita di questi soldati al fronte, evidenziando così l’assurdità della guerra limitandosi al semplice atto di mostrarla. E propone fin dall’incipit, straordinario per pathos e messa in scena (gli inizi fortemente adrenalinici sono una costante del suo cinema), una eccellente lezione di regia: virtuosa, nervosa, frenetica, composta da movimenti di macchina secchi ed improvvisi e stacchi frequentissimi, spinge lo spettatore a sentirsi partecipe al massimo grado di quanto avviene, quasi portandolo fisicamente al fianco dei soldati.


Quello della Bigelow, tirando le somme, è di certo un cinema prepotentemente visivo (e The Hurt Locker sta ancora una volta a dimostrarlo), “che concede molto poco a chi vuole ricercare l’inesistente originalità delle trame o l’attrazione dei bei dialoghi, ma che riserva emozioni a chi sa cogliere la limpida dinamica di immagini capaci da sole di costruire il racconto e di rivelare in una inquadratura o in un movimento della mdp tutto il complesso universo dei sentimenti e delle passioni umane” (Aldo Viganò). Sarebbe però un gravissimo errore finire per relegare il suo cinema ad un mero esercizio di stile, per quanto di altissimo livello: la Bigelow ha sempre affermato con forza di soffermarsi molto sui caratteri di una storia, non partendo mai dalla tecnica e considerando sempre la tecnologia al servizio della vicenda da narrare. Avendo come costante punto fermo quello di partire dall’interiorità dei personaggi. Come è logico, e come avviene inevitabilmente nel caso di tutti i grandi registi, per quanto diversi possano essere tra loro, è la storia il punto dal quale devono irradiarsi le scelte stilistiche, le quali devono naturalmente avere una profonda correlazione con la diegesi evitando di essere sterilmente fine a se stesse solo perché, magari, considerate di per sé esteticamente affascinanti.

Articolo pubblicato nel numero 9 di Cinem’Art (Dicembre 2008)

venerdì 21 gennaio 2011

"Lebanon" di Samuel Maoz


La storia di Lebanon, intenso e crudo lungometraggio vincitore del Leone d’oro al festival di Venezia del 2009, è poco più di un canovaccio: è il 6 giugno del 1982, il primo giorno della Guerra del Libano, quando quattro militari israeliani all’interno di un carro armato ricevono l’ordine di scortare una truppa di soldati sino ad una cittadina da poco bombardata dalla FDI (Forze di Difesa Israeliane).
Il film è ambientato quasi esclusivamente all’interno dell’imponente mezzo bellico “Rinoceronte”, e gli abbacinanti orrori della guerra ci vengono sistematicamente presentati attraverso il punto di vista soggettivo del protagonista Shmulik, il tiratore che osserva l’inesprimibile strage attraverso il filtro del mirino del cannone. Una scelta stilistica rischiosa questa, che avrebbe potuto portare il film ad una staticità visiva non indifferente. E invece Samuel Maoz, esordiente regista israeliano, nel rappresentare i concitati momenti delle battaglie riesce a dinamizzare la messa in scena alternando sapientemente queste seducenti riprese con un funzionale ricorso alla macchina a mano. Il tutto condito da un montaggio rapido particolarmente efficace e da un’inusuale ed efficacissima insistenza, per un film di guerra, su primi piani e dettagli del viso dei quattro militari sconvolti dalle urla di persone che muoiono e soffrono disperatamente.


L’obiettivo è chiaramente quello di restituire, sfruttando appieno le possibilità del mezzo filmico, l’esperienza dell’essere umano in guerra. In Lebanon non c’è spazio per eroi solitari che partono da soli per andare a sconfiggere un esercito nemico: ci sono degli uomini che davanti all’orrore si sentono inadeguati e bloccati, che hanno difficoltà a premere il grilletto o che arrivano a gridare con  tutte le loro forze residue di voler tornare a casa dalla madre. Da questo punto di vista, il riferimento è più l’introspettivo La sottile linea rossa di Terrence Malick che l’action-movie Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg.
La pellicola di Maoz si palesa come un'allucinante rappresentazione di un giorno di ordinaria follia nella Guerra del Libano, in cui uomini uccidono continuamente e insensatamente altri uomini, essendo però prima ogni altra cosa un’opera di assoluto valore sul piano visivo. Dopo lo straordinario The Hurt Locker, ingiustamente ignorato dalla giuria nell'edizione del 2008, al festival di Venezia si è visto ancora una volta un war-movie di livello eccelso, un gradino sotto al film della Bigelow solo per quanto concerne l’impatto emotivo complessivo che ne scaturisce.
Sembra impossibile che un tale raffinato cineasta sia al suo primo lungometraggio e abbia alle spalle un solo documentario del 2000 (Total Eclipse), eppure è così. Almeno dal punto di vista formale, questo film ha avuto di gran lunga una marcia in più rispetto alle altre pellicole viste nel sessantaseiesimo concorso veneziano.


giovedì 20 gennaio 2011

"Soul Kitchen" di Fatih Akin


Presentato con successo alla penultima edizione del festival di Venezia, Soul Kitchen si portò a casa con pieno merito il Gran Premio della Giuria, risultando indubbiamente uno dei film più riusciti tra quelli presentati nel concorso del 2009. Il cineasta tedesco Fatih Akin, turco di seconda generazione e già conosciuto per due opere intense e drammatiche come La sposa turca (Orso d’oro a Berlino) e Ai confini del paradiso (premio per la sceneggiatura a Cannes), spiazza per l'autorevolezza che mette in campo nello scegliere con successo la via e le atmosfere della commedia. Dimostrando così di essere un autore eclettico e trovando, alla sua prima incursione nel genere, la commedia perfetta.


Zinos è un giovane tedesco di evidenti origini greche (l'ostico cognome Kazantsakis lascia ben pochi dubbi) ed è proprietario dell'osteria “Soul Kitchen”, alquanto spartana, derivata da un baraccone allo sfascio ma frequentata con assiduità da una serie di fedelissimi clienti che non si distinguono certo per i raffinati gusti culinari (il menù tipo è composto da spaghetti alla panna, cotolette e patatine fritte). Con l’aiuto dell'affascinante cameriera Lucia, il nostro manda avanti l’attività tra alti e bassi, sempre alle prese con bollette e affitto da pagare. Dopo essersi goffamente infortunato alla schiena per un banale incidente domestico, però, si trova costretto a cercare un nuovo cuoco. È in questo momento che decide di offrire il posto di lavoro a Shayn, un geniale e irrequieto chef licenziato da un ristorante di classe a causa del suo comportamento iracondo. A questo punto diviene dunque prioritario, pena il fallimento, spostare il target di riferimento del locale. Nel frattempo, Zinos si imbatte in un vecchio compagno di scuola che non vede da anni e nel fratello Illias, uno scassinatore con poca voglia di lavorare che ha finalmente la possibilità di uscire di galera. Da qui in avanti molti avvenimenti sconvolgeranno la vita del protagonista, in continuo affanno nel cercare di ovviare alle innumerevoli sventure che inesorabilmente lo investono, quasi fosse una sorta di Paperino degli anni 2000.


Frizzante e spassosa, la pellicola ha il pregio (a dire il vero piuttosto raro per una commedia frizzante) di non incappare mai in una sola stonatura. Arrivando ad essere in più occasioni davvero esilarante. Se ne potrebbero fare in serie, ma a titolo esemplificativo ci limiteremo ad un solo esempio: durante una serata in cui il locale è molto frequentato, nel preparare un piatto particolare lo chef abbonda volontariamente nel dosaggio di un ingrediente dagli effetti afrodisiaci. Una rigida agente del fisco, presa in seguito dal desiderio, finisce per fare sesso nel bel mezzo dell'osteria con il compagno di classe di Zinos. Il mattino successivo, Zinos si congratulerà sinceramente con l’amico facendogli notare di aver “fottuto il fisco”.
Incentrato come tutti i precedenti lavori di Akin attorno alla vita di immigrati o tedeschi di origine straniera, Soul Kitchen ha ritmo, vivacità e brillantezza invidiabili. Costruito con indubbia sapienza drammaturgica, mette in campo trovate narrative e visive di notevole efficacia che si sviluppano felicemente di pari passo con le costanti evoluzioni musicali della ricca e colorata colonna sonora. Adam Bousdoukos, l'interprete di Zinos, fornisce una prova d'attore sorprendente, trasmettendo in modo impagabile diversi aspetti comici del proprio personaggio mediante la mimica dell'intero corpo. Insomma, non manca davvero nulla a questa commedia-fumetto dai toni scanzonati ma non priva di sfumature malinconiche. Divertita ed estremamente divertente: in una parola, imperdibile.

mercoledì 19 gennaio 2011

"Vincere" di Marco Bellocchio


Molto apprezzato dalla critica statunitense e inserito da alcuni critici molto influenti nella loro personale top ten del 2010, è notizia di pochi giorni fa che Vincere di Marco Bellocchio, da noi uscito nel maggio 2009, non potrà concorrere alla prossima edizione degli Oscar. Nel 2009 per rappresentante il nostro paese agli Oscar venne scelto Baarìa di Tornatore, eppure la pellicola di Bellocchio, in quanto distribuita nel 2010 sul territorio statunitense, avrebbe potuto essere presa in considerazione per tutte le categorie nell’edizione di quest’anno. Purtroppo, però, il film è stato contemporaneamente distribuito sia nelle sale che nel circuito del Video On Demand e ciò ne ha determinato l’ineleggibilità da parte dei membri dell’Academy.
Tratto liberamente dal libro del 2006 Il figlio segreto del Duce: la storia di Benito Albino Mussolini e di sua madre Ida Dalser di Alfredo Pieroni, l’ultima opera di Marco Bellocchio è un film potente, una sorta di kolossal intimistico che quasi si disinteressa del tutto della storia del fascismo per focalizzarsi sulle vicende private del rapporto tra Benito Mussolini e Ida Dalser. In questo modo, un po' come aveva fatto l’anno prima Marco Tullio Giordana nel suo riuscito ma non da tutti gradito Sangue Pazzo, si inscrivono in modo funebre le vicende del Ventennio (che in entrambi i film rimangono sullo sfondo) all'interno di un'avvolgente atmosfera in cui regnano corruzione morale e vizio. E a  proposito di ciò, non sembra un caso che ambedue le pellicole puntino molto sulla descrizione delle sfrenate pulsioni sessuali che legano i due personaggi principali.
Vincere narra la storia dell'incondizionato e folle amore dell'affascinante Ida Dalser per Mussolini, sbocciato quando questi era ancora socialista e direttore de l'Avanti. Lei arriverà a vendere tutti i propri beni per finanziare il progetto del futuro Duce di fondare Il Popolo d'Italia; lui, già avuto un figlio fuori dal matrimonio da Rachele Guidi (che diverrà in seguito sua moglie), dopo aver appreso della gravidanza di Ida e sempre più coinvolto nella vita politica italiana, la ripagherà abbandonandola e poi facendola rinchiudere in un manicomio per non rischiare di compromettere la propria immagine pubblica.


Il film a tratti mette in gioco un linguaggio vigoroso e virtuoso come di rado capita di vedere nel cinema nostrano, avvalendosi di immagini particolarmente evocative (anche nell'utilizzo di materiale di repertorio) e di musiche prorompenti che riescono a coinvolgere lo spettatore in modo anche perentorio. Tutto questo è evidente soprattutto nei primi tre quarti d'ora nei quali viene energicamente descritto il rapporto tra i due protagonisti. Poi al centro di tutta la lunga seconda parte emergono prepotentemente il personaggio di Ida Dalser/Giovanna Mezzogiorno e la sua tenace lotta nell'ossessivo e vano tentativo di riconquistare Mussolini, cercando inoltre di rivendicare il fatto di aver dato con lui alla luce il figlio Benito Albino.
Per l'inconsueto abbinamento tra grandioso kolossal dalle forti tinte melodrammatiche e notevole forza stilistica, nonché per una certa audacia di fondo, l'opera in questione in alcuni momenti ricorda vagamente Senso di Luchino Visconti, ben intesa l'estraneità di fondo tra due opere così diverse e così lontane nel tempo.


La prova di Filippo Timi nei panni di Mussolini è gigantesca. L'attore di In memoria di me, Come Dio Comanda e La doppia ora rende in maniera impressionante e non mimetica la follia e l'ambizione di Mussolini a forza di sguardi allucinati, stranianti e persi nell'inquietante atto di guardare un orizzonte indefinito. Intensa e notevole anche l’interpretazione di Giovanna Mezzogiorno, che recentemente si è aggiudicata a sorpresa il premio come miglior attrice della prestigiosa National Society of Film Critics, battendo concorrenti del calibro di Natalie Portman, fresca del Golden Globe e strafavorita per gli Oscar grazie alla sua eccellente performance in Black Swan di Darren Aronofsky.
Vincere è in conclusione un film notevole con almeno tre quarti d'ora di grandissimo cinema, anche se forse – almeno questa è stata la nostra impressione dopo la prima visione – non perfettamente riuscito in quanto squilibrato a livello empatico e tensivo nel rapporto tra le due macro-parti di cui si compone. Prima di sbilanciarci definitivamente a tale proposito, comunque, preferiremmo vedere l’affascinante opera di Bellocchio una seconda volta. 

martedì 18 gennaio 2011

"Alla scoperta di Charlie" di Mike Cahill


Charlie (Michael Douglas) è affetto da disturbo bipolare, una malattia psichica che porta coloro che ne sono afflitti a vivere qualsiasi condizione emotiva portandola agli estremi (la felicità diviene subito dopo eccitazione sfrenata, la tristezza depressione, e così via). Dopo aver tentato il suicidio, viene rinchiuso per due anni in un istituto sanitario per pazienti con disturbi comportamentali. Passato il periodo di cura torna a casa, dove ritrova la figlia Miranda (Evan Rachel Wood). Abbandonata dalla madre prima del ricovero del padre, la giovane per poter sopravvivere si era trovata costretta a lasciare gli studi e a cercare lavoro presso un McDonald. Il ritorno di Charlie, ossessionato dalla ricerca di un improbabile tesoro che sarebbe stato perduto dai coloni spagnoli intorno alla metà del Settecento proprio nei dintorni della zona in cui vive, sconvolgerà totalmente la vita di Miranda, monotona e tutta volta al mantenimento di sé e della propria casa. Inizialmente la ragazza è scettica, ma in seguito comincerà a farsi coinvolgere dalle bizzarre teorie del padre.
Tra le pellicole uscite negli ultimi anni, Alla ricerca di Charlie è una delle rappresentazioni cinematografiche più disincantate e meno celebrative della California e del mito spesso abbinato a questa particolare zona geografica, legato a benessere,  immancabili occasioni di riscatto e seconde possibilità. Una California che sembra un sobborgo di un’America smarrita ed alienata, dove gli unici luoghi di socializzazione e di incontro sono supermagazzini o McDonalds. Un luogo in cui il Sogno Americano può trovare spazio esclusivamente nella  follia di un uomo gravemente malato e nella disperata volontà di una adolescente di quasi diciassette anni di credere in qualcosa, in qualcuno: nella figura paterna.


L’esordiente regista/sceneggiatore Mike Cahill, compagno di studi cinematografici del più noto Alexander Payne (regista di due film molto interessanti come Election e Sideways, nonché produttore della pellicola in questione), sembra volerci dire, o meglio mostrare, come l’American Dream, vero e proprio pilastro fondante della cultura statunitense, non sia altro che una affascinante utopia (la ossessiva caccia al tesoro, appunto). Non è affatto un caso, dunque, che con il passare dei minuti, fino al delizioso e per certi versi spiazzante epilogo (in realtà ambiguo e sospeso solo in apparenza), il film si sveli sempre più come una surreale favola che si affida decisamente alla sospensione di incredulità dello spettatore, divenendo progressivamente meno “realistico” e più “fiabesco”.
Alla ricerca di Charlie (King of California nella versione originale, titolo ben più stimolante e che rende giustizia, a differenza di quello italiano, proprio alla natura prettamente favolistica del film) probabilmente non è perfettamente riuscito in ogni sua parte, in alcuni momenti della narrazione ha degli evidenti cali di ritmo – in particolar modo nella parte centrale –, ma è in ogni caso una commedia intelligente, piacevole, che fa riflettere e che può contare su dei personaggi ben delineati e per nulla stereotipati. Da sottolineare è l’affiatata coppia d’attori composta da Michael Douglas (qualcuno ha giustamente detto che questa è la sua migliore performance dai tempi di Wonder Boys) e soprattutto Evan Rachel Wood, esplosa con Thirteen e apprezzata nel recente Across the Universe, qui in grado di conferire a Miranda un ineffabile candore.

                                       
I dialoghi non saranno brillanti e cool come quelli di Juno, ma in compenso l’operazione nel complesso ci sembra più coraggiosa, sincera e meno furba. Uscito nel maggio 2008 e passato sostanzialmente inosservato. Davvero un peccato.

domenica 16 gennaio 2011

Il cortometraggio e il cinema

A prima vista il cortometraggio, rispetto al film, può sembrare una forma espressiva minore, una sorta di cinema di serie B. Come è possibile in fondo, ci si potrebbe chiedere, articolare un discorso approfondito e compiuto nello spazio di pochi minuti? 
Innanzitutto, prima di ogni altra considerazione, è necessario soffermarsi brevemente su cosa si intende per corto. Generalmente si parla di cortometraggio quando la durata di una successione di immagini in movimento non va oltre i trenta minuti circa. Dai trenta ai sessanta minuti siamo di fronte ad un mediometraggio, mentre se si superano i sessanta minuti si parla di lungometraggio o, più comunemente, di film. Va da sé che nei corti è fondamentale esibire una notevole capacità di sintesi: la prima regola da seguire è quella dell’essenzialità. Un corto, per risultare davvero efficace, deve necessariamente procedere secondo una poetica della sottrazione, evitando qualsiasi tipo di ridondanza. Per questi motivi, oltre che per ovvie ragioni di carattere economico, i cortometraggi rappresentano la scuola ideale per quei futuri registi cinematografici che devono imparare a padroneggiare il mezzo filmico. 


Negli ultimi anni, però, accade sempre più di frequente che cineasti affermati decidano di girare dei corti: il caso più recente è quello di Spike Jonze, l’acclamato regista di Essere John Malkovich e Nel paese delle creature selvagge, che nell’eccentrico I’m Here racconta una commovente storia d’amore tra due robot ambientata nella Los Angeles contemporanea. Il corto, quindi, non deve essere banalmente considerato come l’anticamera del cinema nelle sale, ma piuttosto va visto come una forma espressiva ad esso analoga ed altrettanto significativa. Del resto, la storia del cinema nasce con i cortometraggi di George Méliès e dei fratelli Lumière e alcuni dei grandi capolavori dei primi decenni del Novecento sono a tutti gli effetti dei corti (si pensi a Charlie Chaplin e Buster Keaton o al surrealista Un chien andalou di Luis Buñuel). 




Articolo pubblicato su "Corto Magazine", il magazine della settima edizione del Festival Pontino del Cortometraggio.

venerdì 14 gennaio 2011

Vittorio De Seta e il documentario breve


Quando si pensa al linguaggio del documentario, generalmente non si prendono in considerazione le notevoli possibilità insite nel documentario a breve durata. Come detto nell’articolo dedicato al cortometraggio, quest’ultimo offre al regista l’opportunità di esprimersi limitandosi all’essenziale. 
Ma ha davvero senso tentare di raccontare un luogo o un fenomeno storico-sociale in poche decine di minuti? Certamente sì, se si decide di circoscrivere il campo di indagine a singoli frammenti della realtà che ci circonda. E la dimostrazione più lampante di ciò si può trovare nelle prime straordinarie opere di Vittorio De Seta (Palermo, 1923), grandissimo regista riconosciuto in tutto il mondo come indiscusso maestro del documentario. Tra il 1954 e il 1958, l’ottantasettenne siciliano ha girato dieci documentari brevi (della durata media di dieci minuti circa) sulla faticosa vita dei pescatori, dei minatori e dei contadini del Sud Italia. Vedendo oggi opere come Lu tempu de li pisci spata, Surfarara o Isole di fuoco (vincitore nel 1955 del premio per il miglior documentario-cortometraggio al Festival di Cannes), si ha l’impagabile possibilità di entrare in contatto con un mondo di tradizioni e valori arcaici scomparso, spazzato via dal rapido avanzare del progresso tecnologico portato in dote dal boom economico a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta. 


Il possente fascino del cinema di De Seta risiede principalmente nel fatto che in esso l’ansia del mostrare la realtà va sempre di pari passo con l’urgenza dettata dalle possibilità formalizzanti dell’immagine filmica. A tal proposito, Roberto Saviano coglie il senso più profondo della poetica desetiana quando scrive che la “struttura bicefala” delle sue opere è “capace di guardare contemporaneamente all’inferno degli umani e alla meravigliosità che emana la pulsione del vivere”, non cedendo mai né “all’informazione esclusiva” né “al gesto estetico soltanto”. D’altronde, come lo ha felicemente definito il suo grande ammiratore Martin Scorsese, De Seta non è altro che “un antropologo che si esprime con la voce di un poeta”. 

Articolo pubblicato su "Corto Magazine", il magazine della settima edizione del Festival Pontino del Cortometraggio.

lunedì 10 gennaio 2011

Heineken - The Entrance


Un giovane uomo in smoking esce da una macchina ed entra in un grande palazzo in cui riecheggia il ritmo frizzante di The Golden Age, il nuovo singolo del gruppo danese The Asteroids Galaxy Tour. Qui il nostro protagonista incontra una serie di personaggi a dir poco bizzarri, con cui gioca nei modi più svariati. Il mood scanzonato del divertente Heineken – The Entrance si sposa perfettamente con la melodia della canzone che sentiamo in sottofondo e attraverso una suggestiva alternanza di inquadrature oggettive, soggettive e primi piani, la regia di Fredrik Bond (nominato tre volte nella rosa dei migliori registi pubblicitari dalla Directors Guild of America) riesce efficacemente a tenere  il passo.

Girato nell’arco di una settimana nei pressi di Barcellona, lo spot sta spopolando in rete dalla fine del 2010 e fa parte di una campagna pubblicitaria Heineken più ampia che include anche il video musicale della canzone dei The Asteroids Galaxy Tour (che avete potuto visionare nei giorni scorsi su Cinemagnolie), nonché una serie di divertenti brevi video incentrati sulle storie dei personaggi in cui si imbatte il protagonista di Heineken – The Entrance. Davvero esilaranti, questi 11 filmati di 1 minuto circa ciascuno li potete trovare cliccando sul link http://www.facebook.com/heineken?v=app_11007063052, una volta cliccato sul pulsante “Mi piace” della pagina Facebook di Heineken.

A questo punto non mi resta che augurarvi buon divertimento, in attesa del proseguimento della campagna Heineken che continuerà nei prossimi mesi con nuovi video e sorprese.

Articolo sponsorizzato da Heineken