sabato 26 giugno 2010

Buon Compleanno, Paul!


Oggi compie 40 anni Paul Thomas Anderson, il più talentuoso e ambizioso regista che il cinema mondiale abbia offerto a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo. Autore di alcune delle sequenze cinematograficamente più significative dell'ultimo decennio, Paul Thomas Anderson è cineasta raffinatissimo. Anche se dopo Il petroliere l'atteggiamento dei critici nei suoi confronti sembra sia cambiato piuttosto sensibilmente, l'impressione di fondo è che il regista statunitense sia tuttora parzialmente sottovalutato, soprattutto da certa critica italiana non ancora in grado di coglierne appieno la grandezza. A soli 40 anni è autore di almeno due capolavori (Magnolia e Il petroliere, appunto) e di due film straordinari (Boogie Nights e Ubriaco d'amore). Raramente nella storia del cinema si sono visti autori così giovani dirigere opere che prepotentemente ostentano una tale maturità: girare un film come Magnolia a 29 anni non è proprio uno scherzo. Anzi, è roba da fuoriclasse, da registi con una marcia in più.
Troppo frettolosamente etichettato da diversi critici come ambizioso e magniloquente fino all'eccesso, il nostro è, in particolar modo negli Stati Uniti, giustamente adorato dalla critica ma soprattutto dai colleghi e dagli addetti ai lavori: Stanley Kubrick lo volle conoscere di persona dopo essere stato ammaliato dall'esuberanza stilistico-narrativa di Boogie NightsWoody Allen fu colpito grandemente da Magnolia; Francis Ford Coppola considera Ubriaco d'amore uno dei film più innovativi degli ultimi anni (nel corso di una sua bella intervista rilasciata lo scorso anno a LA Weekly, lo ha definito senza troppi giri di parole “fresh”, “unique”, “a work of art”); Quentin Tarantino ha da poco pubblicamente esternato che lo considera il più grande “film-maker artist” in circolazione nel panorama nordamericano. A tal proposito ci sembra interessante far presente che proprio Tarantino, notoriamente conosciuto per la grandezza smisurata del suo ego, ha affermato di essere stato spinto dal collega ad alzare la posta in gioco in Bastardi senza gloria: “Se un paio di anni fa non fosse uscito Il petroliere, difficilmente avrei girato il mio nuovo film. Nessuno mi spinge a fare meglio, a migliorarmi, più del mio amico Paul”.

Ci sarebbe davvero molto da scrivere su questo cineasta straordinario e sul ruolo da lui svolto nella cinematografia statunitense contemporanea. Per ora, ci limitiamo a rimandarvi alle recensioni di Ubriaco d'amore e Il petroliere già presenti nel blog e a proporvi la nostra recensione (che trovate qui) di uno dei più importanti film degli ultimi 15 anni: Magnolia.

Magnolia: un audace capolavoro


Immenso. Nessun'altra parola probabilmente potrebbe definire in maniera più appropriata l'intenso, prorompente, strabordante Magnolia, terza opera dell'enfant prodige della San Fernando Valley Paul Thomas Anderson. Dopo l'esuberante Boogie Nights (1997), che raccontava con malinconica ironia e una sorprendente umanità il mondo del porno losangelino tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, nel 1999 il ventinovenne cineasta californiano torna a far parlare di sé firmando un'opera straordinaria, ambiziosa fino ai limiti dell'inverosimile. L'obiettivo è, sull'evidente modello di America Oggi di Robert Altman (1993), quello di raccontare il fatale intrecciarsi delle vite di 12 persone lungo l'arco di un'unica lunga, palpitante e nevrotica giornata. Gli avvenimenti che accadranno in queste tumultuose 24 ore porteranno i loro tormentati protagonisti a fare i conti con il proprio passato, perché, come dicono uno dei personaggi e il narratore esterno del film, “possiamo chiudere con il passato, ma il passato non chiude con noi”. E ad Anderson tre (tesissime) ore di narrazione bastano appena a rappresentare un mondo in cui si affacciano violentemente emozioni fortissime, sofferenze indicibili e forse, alla fine, inaspettate redenzioni.

Partendo dall'inevitabile presupposto che parlare con la dovuta profondità ed esaustività di un film ricco e complesso come Magnolia è assolutamente impossibile nello spazio di una recensione, proviamo per prima cosa a riassumere in poche righe l'elaborato intreccio narrativo sapientemente costruito dal talentuoso regista/sceneggiatore nordamericano. Nella San Fernando Valley (Los Angeles) si intrecciano le vite di vari personaggi: Earl Partridge, un produttore televisivo malato terminale (Jason Robards) che, alla fine della sua vita, sente il bisogno di riallacciare i rapporti con il figlio abbandonato da adolescente con la madre morente. Questi (Tom Cruise) è un famoso guru del sesso del tubo catodico che però, dietro l'immagine di una superficiale e ostentata sicurezza, nasconde la sofferenza per l'abbandono del padre. A completare questa famiglia vi è la giovane moglie di Earl, Linda (Julianne Moore), una donna sulla quarantina sposatasi per interesse e che si accorge troppo tardi di amare veramente il marito, tradito più volte nel corso degli anni. E ancora Jim, un poliziotto in cerca d’amore (John C. Reilly), un bambino prodigio sfruttato come fenomeno da baraccone televisivo, un presentatore di un quiz per bambini (Philip Baker Hall), anch'egli malato terminale, che messo sotto scacco dai rimorsi confessa alla moglie di averla più volte tradita e al contempo cerca di ricucire i rapporti con Claudia, la figlia da lui molestata sessualmente anni prima (Melora Walters); per ultimo un ex bambino prodigio (William H. Macy), che vessato dal padre non è riuscito a costruire la propria personalità.


Anderson sin dal grandioso prologo – nel quale vengono narrate tre vicende caratterizzate da incredibili coincidenze – enuncia sottotraccia la fondamentale chiave di lettura del film. Egli sottolinea che qualsiasi avvenimento riguardante un uomo non è estraneo alla storia degli altri; ognuno è legato da una fitta rete di rapporti che lo condiziona sia positivamente che negativamente e nella quale il passato gioca un ruolo fondamentale (si pensi alla frase già citata in apertura di articolo). Quando si considerano le più sfortunate o bizzarre vicende altrui come estranee, si tende a marcare una distanza fra sé e gli altri e a non riconoscere quel filo comune che ci lega nel pathos dell'esistenza. Questo sentimento panico è rappresentato in maniera chiara, geniale ed efficace attraverso una delle sequenze, narrativamente parlando, più significative ed inventive degli anni Novanta: tutti i personaggi principali della pellicola, uno dopo l'altro, cantano alcuni versi della canzone Wise Up di Aimee Mann. La musica sottolinea i paralleli fra la sofferenza dei diversi personaggi, conferendo alla sequenza l’idea di persone disparate che per una volta sono sulla stessa lunghezza d’onda emotiva. Suggerendo al contempo in modo poetico e quanto mai originale che in fondo esiste un legame tra le esistenze e il dolore di ogni essere umano. Come hanno fatto notare diversi critici statunitensi particolarmente accorti, con questa sorprendente fusione tra musica e immagini, che arriva quasi a sfociare nel musical, Anderson riesce mirabilmente a comunicare in soli tre minuti un qualcosa che altrimenti avrebbe richiesto decine di pagine di dialoghi e numerose sequenze.

Ci sarebbero ancora tantissime cose da dire e nel nostro breve intervento abbiamo parlato solo di alcuni dei molteplici temi che, potenti, si irradiano dal sublime universo di Magnolia. Girato e scritto superbamente (diverse sequenze e alcuni scambi dialogici rimarranno nella storia del cinema) e basato su una struttura a incastro di una solidità sbalorditiva, l'opera del 1999 è, per ambizione, coraggio e complessiva forza del linguaggio narrativo-stilistico esibito, senza ombra di dubbio uno dei più importanti film statunitensi degli anni Novanta.

giovedì 10 giugno 2010

Capitalism: A Love Story. Il capitalismo secondo Michael Moore


Nell’arco della sua attività di film-maker ha descritto con estrema crudezza le terribili conseguenze sulla sua città nativa delle migliaia di licenziamenti operati dalla Roger Motors (Roger&Me), l’onnipotente e sporco potere delle lobbies delle armi (Bowling for a Columbine) e delle assicurazioni sanitarie (SiCKO) negli Stati Uniti, le sanguinose bugie dell’amministrazione Bush dopo l’11 settembre (Farenheit 9/11). Questa volta l’irriverente Michael Moore, con il brillante Capitalism: A Love Story, se la prende con banche e signori della finanza, rei di avere affossato l’economia nordamericana arricchendosi grandemente e facendo di milioni di americani dei disperati senzatetto.
L’intera opera del regista nato nel 1954 a Flint (Michigan) è costantemente volta a demolire le fondamenta del celeberrimo Sogno Americano, non disdegnando mai il periodico ricorso ad un’irresistibile ironia tendente alla sdrammatizzazione. Roger & Me (1989), Bowling for Colombine (2002), Farenheit 9/11 (2004), Sicko (2007) in fondo, pur partendo dall’analisi di problematiche diverse tra loro, evidenziano come negli Stati Uniti, di gran lunga ancora il paese più potente del mondo, ci sia una profonda frattura nel tessuto sociale e come l’élite economica e delle lobbies, tutta tesa al perseguimento di quell’imperativo categorico che è la massimizzazione dei profitti, esacerbi drasticamente questa situazione e condizioni profondamente la vita del popolo americano, calpestandone meschinamente dignità e diritti.
Capitalism: A Love Story risulta essere pienamente dentro questo discorso e, prima di ogni altra cosa, è soprattutto un gran bel film, pieno di efficaci ed esilaranti invenzioni. Tra le tante: il montaggio alternato che in apertura paragona l’impero romano in declino all’attuale situazione statunitense, facendo ricorso a estratti di un vecchio film hollywoodiano sull’Antica Roma; l’immagine di un cane di piccola taglia che tenta insistentemente di addentare qualcosa da un tavolo, proposta da Moore mentre descrive l’ostinata attitudine tutta americana a continuare testardamente a credere nel Sogno Americano e nella possibilità di poter, prima o poi, divenire ricchi; il parallelismo tra la logica alla base dei subprimes e il prestito mafioso.
Il quadro che emerge della società statunitense da questa lucida analisi della crisi del capitalismo è a dir poco agghiacciante. Eppure Moore, nell’ultima straordinaria parte del film, si lascia andare come mai aveva fatto finora alla speranza per un futuro migliore. Mostrando alcune storie di operai che, poco dopo l’elezione di Obama, hanno ottenuto la riassunzione dopo aver trovato la forza di ribellarsi in gruppo all’ingiusto licenziamento, il cineasta auspica una nuova stagione politico-sociale per gli Stati Uniti, augurandosi che l’ex senatore dell’Illinois possa finalmente realizzare quel progetto di equità, giustizia e democrazia che Roosvelt un anno prima di morire, nel lontano 1944, aveva promesso ai nordamericani.

Ultimo accenno alla geniale sequenza che anticipa i titoli di coda: Moore si presenta a New York, davanti a numerose sedi dei colossi finanziari responsabili del disastro economico, per affiggere all’entrata la tipica transenna da poliziesco hollywoodiano con la scritta “Crime Scene, Do Not Cross This Line” .