Girato al
contempo in live action e attraverso tre diverse tecniche di stop motion, Fantasticherie
di un passeggiatore solitario uscirà nelle sale italiane nei prossimi mesi dopo
aver riscosso un notevole successo in numerosi festival internazionali dedicati
al cinema di genere.
Ispirato
dalla passione per i libri incompiuti nata ai tempi degli studi universitari di
filosofia, il regista e sceneggiatore calabrese Paolo Gaudio ha realizzato
un’opera prima affascinante e molto ambiziosa che intreccia tre differenti
storie. Fantasticherie di un
passeggiatore solitario narra le vicende del romanziere Renou, intento a
scrivere nella seconda metà dell’Ottocento un’opera che, per quanto destinata a
non vedere una conclusione, giunge misteriosamente tra le mani del giovane Theo,
un bizzarro e introverso studente di letteratura dei giorni nostri. Le
dimensioni del passato e del presente sono collegate dalla suggestiva
rappresentazione in animazione a passo uno delle vicende del romanzo che Renou sta
scrivendo e Theo sta leggendo.
Prodotto dalla Smart Brands di Angelo Poggi, il
film alla fine del 2014 si è aggiudicato il Grand Prix della Samain du Cinéma
Fantastique di Nizza (lo stesso riconoscimento nel 2013 era andato a Gravity di Alfonso Cuarón) ed è stato
proiettato in molti festival europei e statunitensi, tra cui il Sci-Fi-London
Film Festival, il Brussels International Fantastic Film Festival e il
californiano Mammoth Lakes Film Festival. Tra i suoi più grandi punti di forza,
Fantasticherie annovera senz’altro l’ottimo
lavoro svolto nel campo dell’animazione e degli effetti visivi. Proprio di
questo abbiamo parlato con Paolo Gaudio, la cui produzione è legata fin dai
primi cortometraggi alla sperimentazione di tecniche d’animazione nel contesto
del cinema di genere fantastico.
Ho trovato molto
interessante la scelta di realizzare completamente in animazione i momenti in
cui la fantasia dello scrittore Renou prende vita grazie alla scrittura. Come
mai hai voluto legare in maniera così forte l’animazione con il tema
dell’immaginazione?
Per
come lo intendo io, il cinema è uno spazio in cui potersi muovere con la
massima libertà tra linguaggi e registri diversi. Da sempre ho visto nell’animazione
il modo più esplicito e più diretto per tradurre la fantasia in immagini. Dato
che nel film il mondo dell’immaginazione doveva essere la fondamentale cerniera
tra le storie dello scrittore e dello studente, l’animazione non poteva che
avere un ruolo centrale. Fin dalle primissime fasi di ideazione del progetto, la
mia idea è stata quella di realizzare una pellicola che prevedeva dei momenti
di fantasia purissima. E secondo me nel cinema la fantasia purissima può essere
rappresentata appieno solo attraverso l’animazione.
In Fantasticherie si fa ampio ricorso alla
clay animation. Per quale motivo hai optato per questa tecnica?
La
clay animation è un tipo di stop motion che utilizza pupazzi in plastilina.
Questi, a differenza di quelli più raffinati in silicone o in lattice, sono
privi di un’armatura o di una struttura metallica che permette di spostare più
facilmente le parti che si vogliono muovere. La clay animation è una tecnica
molto più economica (i pupazzi in plastilina hanno un costo contenuto) ma anche
più complicata rispetto alla stop motion moderna, in quanto richiede una
maggiore sensibilità da parte dell’animatore, che per muovere il pupazzo arriva
a doverlo rimodellare o riscolpire a mano. L’animatore Gianluca Maruotti, da
questo punto di vista, ha fatto davvero un gran lavoro nel film. Per quanto con
la clay animation sia impossibile raggiungere la grande definizione dei
dettagli e l’iperrealismo tipici della stop motion contemporanea industrializzata,
devo dire che nel caso specifico di Fantasticherie
il carattere più artigianale della clay animation si adattava molto meglio al
tipo di fantasia che volevo rappresentare.
Oltre alla clay
animation, in alcuni passaggi del film hai utilizzato anche altre due tecniche di
animazione a passo uno come la cutout animation e la pixillation.
È
vero. Con la tecnica della cutout animation, un altro tipo di stop motion in
cui il materiale ad essere animato non è il pupazzo ma la carta, abbiamo
realizzato i cartelli che dividono il film in tre capitoli (“Fantasticheria n°
23”, “Il necromante”, “Il viaggio”) e tutti i titoli di coda, oltre a far
esplodere la casetta alla fine della sequenza dei titoli di testa. Nella scena
in cui Theo racconta dei suoi genitori mentre li vediamo seduti sul divano, invece,
abbiamo optato per la pixillation animando in passo uno direttamente i corpi di
Fabrizio Ferracane e Selene Riosello. I due attori si sono prestati in maniera straordinaria
a un lavoro molto complicato, che richiedeva di stare completamente immobili
finché non gli avrei dato il via libera per il movimento successivo.
Insieme alla
sequenza in cui vengono connessi un momento della scrittura di Renou e il parto
della sua immaginazione attraverso l’evocativa Holes dei Mercury Rev, la scena dei titoli di testa è la più sorprendente
e d’impatto dell’intero film. Puoi dirci come è stata realizzata?
In
questo caso abbiamo ripreso in live action a 25 fotogrammi al secondo un
modellino di carta che ricostruisce la città del sogno di Theo. Per motivi
economici abbiamo fatto ricorso alla carta e non a un plastico, ma la scelta si
è rivelata assolutamente vincente. Credo che la sequenza abbia una
grande personalità dal punto di vista estetico e forse resterà un pezzettino
unico nel cinema italiano di questi anni. Secondo me il nostro cinema deve puntare
con maggiore decisione su soluzioni di questo tipo. In un periodo storico in
cui la settima arte tende sempre più a standardizzarsi, infatti, ci sarebbe davvero
bisogno di osare e provare a spingersi verso cose un pochino differenti, almeno
da un punto di vista dell’estetica, della visione, dello sguardo.
C’è un aspetto
del lavoro sull’animazione e sugli effetti speciali del tuo film di cui vai particolarmente
fiero?
Una
delle cose di cui vado più orgoglioso è il modo in cui abbiamo creato il
necromante, il mostro che tormenta Renou e ne ostacola l’attività creativa.
All’inizio del film eravamo molto indecisi su come procedere. Abbiamo pensato a
crearlo in computer grafica, ad animarlo su green screen, a ricorrere all’animatronica
o a vestire un attore con un costume. Poi un giorno con l’esperto di effetti
speciali Leonardo Cruciano abbiamo tirato fuori una tecnica ibrida che
prevedeva una creatura che avesse un corpo vicino a quello dei mostri da
fumetti o da fiaba. L’animatore Luigi Ottolino ha indossato la testa del mostro
e poi tutto quello che restava fuori è stato coperto con una tuta che ci ha
permesso in seguito di eliminare in post-produzione ciò che volevamo. A questo
processo hanno lavorato anche Dennis Cabella e Marcello Ercole della Illusion
di Genova. è stato un lavoro
difficilissimo ma molto soddisfacente. Questo modo di concepire le creature è
stato poi proposto per Il racconto dei
racconti a Matteo Garrone, che ha scelto di affidare alla Makinarium di
Leonardo Cruciano, Angelo Poggi e Nicola
Sganga la realizzazione di tutte le creature del suo film. Il nostro
piccolissimo prodotto, fatto con la solidarietà e l’amicizia di grandi
professionisti, è stato quindi in qualche modo una fucina di creativi che
adesso ha partorito qualcosa di straordinario.
Dopo il successo
internazionale di Fantasticherie, a
cosa stai lavorando ora?
A
diverse cose. Tra le tante, c’è un adattamento del racconto Dagon di Lovecraft che sarà realizzato
interamente in clay animation e che, come il mio esordio, verrà prodotto dalla Smart Brands. Si tratta di un adattamento di
Lovecraft molto particolare, perché in un certo senso è come se i mostri di
Lovecraft incontrassero l’universo di film d’azione della seconda metà degli
anni ottanta e dei primi anni novanta come Predator
o Aliens. Per dirla con una battuta,
sarà un Lovecraft visto con i muscoli di Arnold Schwarzenegger.
Contemporaneamente, sto lavorando anche con la Rainbow CGI e la Rainbow Academy
allo scopo di far nascere un piccolo dipartimento di animazione in stop motion
che speriamo possa portare a una serie televisiva che stiamo immaginando.
Articolo pubblicato nel numero 10 di Fabrique du Cinéma (Estate 2015)
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