mercoledì 23 settembre 2015

Dalla provincia al David. Intervista al regista e sceneggiatore Giuseppe Marco Albano, vincitore del David di Donatello con il cortometraggio "Thriller"

Nato in Puglia a Cisternino ma cresciuto a Bernalda, lo stesso paese della Basilicata di cui è originaria la famiglia di Francis Ford Coppola, il trentenne Giuseppe Marco Albano negli ultimi anni ha ottenuto un successo crescente.  


Dopo una candidatura ai Globi d’oro del 2009 con Il cappellino e la vittoria nel 2012 del Nastro d’argento per Stand by me, nel 2013 il regista e sceneggiatore lucano di adozione ha girato Una domenica notte, il suo primo lungometraggio interpretato tra gli altri da Antonio Andrisani, Anna Ferruzzo e Pietro De Silva. Qualche mese fa, grazie a Thriller, si è invece aggiudicato il David di Donatello per il miglior cortometraggio. Abbiamo parlato con Giuseppe Marco Albano di quest’ultimo lavoro, molto apprezzato dalla critica e presentato in decine di festival tra il 2014 e il 2015.

Come è nata l’idea di raccontare la storia di un quattordicenne con il sogno di diventare famoso ballando come Michael Jackson, sullo sfondo della questione dell’Ilva di Taranto?

Fin da piccolo Michael Jackson è stato uno dei miei idoli e ho sempre pensato che un giorno avrei potuto raccontare una storia che in qualche modo lo riguardasse. Da anni inoltre avevo il desiderio di girare a Taranto, una città bellissima che conosco bene perché vicina al paese dove sono cresciuto e tuttora vivo. Nel periodo in cui si è iniziato a parlare della drammatica situazione dell’Ilva, ho immaginato fosse interessante collegare questo aspetto alla vicenda di un fan di Michael Jackson in attesa di partecipare a un talent show. Una volta buttato giù il soggetto, ho scritto la sceneggiatura con Francesco Niccolai e così, dal mio amore per Taranto e per Michael Jackson, è venuto fuori Thriller.


Come Stand by me, anche Thriller privilegia l’interesse per una tematica sociale attraverso un approccio improntato perlopiù alla commedia. Quali sono, da questo punto di vista, le tue ispirazioni cinematografiche?

Ho studiato e amo follemente grandi autori come Fellini, Bertolucci e Truffaut, però i miei modelli sono altri. Ho scoperto la settima arte con i film di Castellano e Pipolo, Sergio Corbucci, Steno, così come con le pellicole che vedevano protagonisti Bud Spencer e Terence Hill o Enrico Montesano. Poi ho conosciuto Johnny Stecchino e Il mostro di Benigni. In generale, mi affascina quel tipo di cinema capace di affrontare importanti temi sociali con la leggerezza tipica di noi italiani, permettendoci di essere profondi pur non virando necessariamente verso il dramma vero e proprio.

Tutti i tuoi corti si concludono con dei finali surreali e, in una certa misura, sospesi. A cosa è dovuta questa scelta?

In effetti si tratta di una struttura che continuo a sviluppare nel corso del tempo. In ogni mio lavoro sono presenti la componente onirica e un doppio finale. Thriller ad esempio sarebbe potuto finire nel momento in cui il protagonista va a ballare davanti all’Ilva interrompendo la manifestazione. Invece, citando il celebre videoclip di Michael Jackson diretto da John Landis, ho scelto di aggiungere la scena in cui il ragazzino danza con gli operai trasformatisi in zombi. Spesso per l’ideazione e lo sviluppo di un progetto mi capita di trarre ispirazione dai miei sogni ed è per questo che i miei lavori hanno sempre degli aspetti fantastici e surreali.


A cosa ti stai dedicando ora?

Insieme a Dario D’Amato e Angela Giammatteo sto scrivendo un lungometraggio che spero di dirigere il prossimo anno. È una commedia che si concentra su tematiche sociali forti attraverso la rappresentazione del mondo degli anziani. Si chiama Vedi Napoli e poi muori e attualmente stiamo dialogando con diverse produzioni italiane interessate, alla ricerca di una soluzione che mi permetta di fare il film come lo intendo io, senza doverne stravolgere la storia.

Articolo pubblicato nel numero 11 di Fabrique du Cinéma (Autunno 2015)

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