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domenica 19 settembre 2010

"Roger & Me" di Michael Moore: l'altra faccia del Sogno Americano


Il senso di Roger & Me, il primo sorprendente lavoro del 1989 di Michael Moore (affermatosi poi a livello internazionale una quindicina di anni più tardi con l'accoppiata Bowling A Columbine-Farenheit 9/11), è racchiuso nell’ultima inquadratura del documentario: uno zoom all'indietro contestualizza una sventolante bandiera americana in cima ad un edificio circondato da strutture in via di demolizione.
A Flint (Michigan), città natale del regista statunitense, la General Motors licenzia nel 1986 trentamila operai per trasferirsi in Messico e risparmiare in tal modo sulla manodopera. Moore indaga la mutata realtà sociale e cerca vanamente, più volte, di avere un colloquio con il presidente dell'azienda automobilistica, Roger Smith, per invitarlo a Flint a vedere di persona le tremende conseguenze del suo atto. Roger & Me ci mostra una città-fantasma in cui, a seguito dell’imponente licenziamento, la maggior parte degli abitanti si trovano improvvisamente senza lavoro. I sussidi governativi mensili sono assai esigui e per sopravvivere ci si inventa di tutto: in un tessuto sociale totalmente sfaldato, c’è chi dona il sangue più volte la settimana e chi vende conigli vivi da compagnia o macellati pronti per essere mangiati.

Va da sé che in questo tragico contesto crescano esponenzialmente criminalità e omicidi. Flint arriva persino considerata dalla famosa rivista americana Money la peggiore città degli Stati Uniti d’America. Il tutto nell’assoluta indifferenza delle autorità locali, le quali si limitano ad organizzare incontri con personaggi famosi del piccolo schermo, divi locali e predicatori allo scopo di tenere alto il morale dei cittadini e convincerli della possibilità di ricostruirsi una vita. Con simili “provvedimenti”, la situazione naturalmente non accenna a cambiare. Dopo aver costruito un nuovo carcere (l’unico esistente è ormai sovraffollato), allora le autorità decidono di tentare il tutto per tutto: trasformare la città in una località turistica di richiamo. Quello che si suol dire un deus ex machina. Vengono così costruiti un lussuosissimo albergo e un grande centro commerciale, destinati ovviamente a rimanere vuoti e a fallire in pochi mesi, dal momento che difficilmente un luogo spettrale in cui regnano sovrane povertà, disoccupazione e disperazione può divenire per magia una ambita meta turistica.

Dal documentario di Moore emerge una sorta di atmosfera post-apocalittica che non sfigurerebbe affatto in un film catastrofico e che ci mostra l’altra faccia dell’America di Reagan. Un'America in cui il tradizionale mito della “seconda possibilità” è destinato miseramente a non trovare spazio e dove, come narra la voce fuori campo di Michael Moore in conclusione, alla fine del ventesimo secolo “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. Di fortissimo impatto la sequenza in cui con un insistente montaggio parallelo vengono mostrati gli sfratti che, come ogni giorno precedente, il vice-sceriffo sta compiendo anche alla vigilia di natale. Proprio mentre Roger Smith tiene il tradizionale discorso a un gruppo di suoi dipendenti, in cui elogia la bellezza e la magia del periodo natalizio e il “suo spirito totalizzante”, ricordando che “la dignità e i valori umani sono il nostro patrimonio comune”. Pur essendo meno conosciuto, Roger & Me è da considerarsi a buon diritto al livello di Bowling A Columbine, Farenheit 9/11, Sicko e dell'ultimo Capitalism: A Love Story.

giovedì 10 giugno 2010

Capitalism: A Love Story. Il capitalismo secondo Michael Moore


Nell’arco della sua attività di film-maker ha descritto con estrema crudezza le terribili conseguenze sulla sua città nativa delle migliaia di licenziamenti operati dalla Roger Motors (Roger&Me), l’onnipotente e sporco potere delle lobbies delle armi (Bowling for a Columbine) e delle assicurazioni sanitarie (SiCKO) negli Stati Uniti, le sanguinose bugie dell’amministrazione Bush dopo l’11 settembre (Farenheit 9/11). Questa volta l’irriverente Michael Moore, con il brillante Capitalism: A Love Story, se la prende con banche e signori della finanza, rei di avere affossato l’economia nordamericana arricchendosi grandemente e facendo di milioni di americani dei disperati senzatetto.
L’intera opera del regista nato nel 1954 a Flint (Michigan) è costantemente volta a demolire le fondamenta del celeberrimo Sogno Americano, non disdegnando mai il periodico ricorso ad un’irresistibile ironia tendente alla sdrammatizzazione. Roger & Me (1989), Bowling for Colombine (2002), Farenheit 9/11 (2004), Sicko (2007) in fondo, pur partendo dall’analisi di problematiche diverse tra loro, evidenziano come negli Stati Uniti, di gran lunga ancora il paese più potente del mondo, ci sia una profonda frattura nel tessuto sociale e come l’élite economica e delle lobbies, tutta tesa al perseguimento di quell’imperativo categorico che è la massimizzazione dei profitti, esacerbi drasticamente questa situazione e condizioni profondamente la vita del popolo americano, calpestandone meschinamente dignità e diritti.
Capitalism: A Love Story risulta essere pienamente dentro questo discorso e, prima di ogni altra cosa, è soprattutto un gran bel film, pieno di efficaci ed esilaranti invenzioni. Tra le tante: il montaggio alternato che in apertura paragona l’impero romano in declino all’attuale situazione statunitense, facendo ricorso a estratti di un vecchio film hollywoodiano sull’Antica Roma; l’immagine di un cane di piccola taglia che tenta insistentemente di addentare qualcosa da un tavolo, proposta da Moore mentre descrive l’ostinata attitudine tutta americana a continuare testardamente a credere nel Sogno Americano e nella possibilità di poter, prima o poi, divenire ricchi; il parallelismo tra la logica alla base dei subprimes e il prestito mafioso.
Il quadro che emerge della società statunitense da questa lucida analisi della crisi del capitalismo è a dir poco agghiacciante. Eppure Moore, nell’ultima straordinaria parte del film, si lascia andare come mai aveva fatto finora alla speranza per un futuro migliore. Mostrando alcune storie di operai che, poco dopo l’elezione di Obama, hanno ottenuto la riassunzione dopo aver trovato la forza di ribellarsi in gruppo all’ingiusto licenziamento, il cineasta auspica una nuova stagione politico-sociale per gli Stati Uniti, augurandosi che l’ex senatore dell’Illinois possa finalmente realizzare quel progetto di equità, giustizia e democrazia che Roosvelt un anno prima di morire, nel lontano 1944, aveva promesso ai nordamericani.

Ultimo accenno alla geniale sequenza che anticipa i titoli di coda: Moore si presenta a New York, davanti a numerose sedi dei colossi finanziari responsabili del disastro economico, per affiggere all’entrata la tipica transenna da poliziesco hollywoodiano con la scritta “Crime Scene, Do Not Cross This Line” .