Il senso di Roger & Me, il primo sorprendente lavoro del 1989 di Michael Moore (affermatosi poi a livello internazionale una quindicina di anni più tardi con l'accoppiata Bowling A Columbine-Farenheit 9/11), è racchiuso nell’ultima inquadratura del documentario: uno zoom all'indietro contestualizza una sventolante bandiera americana in cima ad un edificio circondato da strutture in via di demolizione.
A Flint (Michigan), città natale del regista statunitense, la General Motors licenzia nel 1986 trentamila operai per trasferirsi in Messico e risparmiare in tal modo sulla manodopera. Moore indaga la mutata realtà sociale e cerca vanamente, più volte, di avere un colloquio con il presidente dell'azienda automobilistica, Roger Smith, per invitarlo a Flint a vedere di persona le tremende conseguenze del suo atto. Roger & Me ci mostra una città-fantasma in cui, a seguito dell’imponente licenziamento, la maggior parte degli abitanti si trovano improvvisamente senza lavoro. I sussidi governativi mensili sono assai esigui e per sopravvivere ci si inventa di tutto: in un tessuto sociale totalmente sfaldato, c’è chi dona il sangue più volte la settimana e chi vende conigli vivi da compagnia o macellati pronti per essere mangiati.
Va da sé che in questo tragico contesto crescano esponenzialmente criminalità e omicidi. Flint arriva persino considerata dalla famosa rivista americana Money la peggiore città degli Stati Uniti d’America. Il tutto nell’assoluta indifferenza delle autorità locali, le quali si limitano ad organizzare incontri con personaggi famosi del piccolo schermo, divi locali e predicatori allo scopo di tenere alto il morale dei cittadini e convincerli della possibilità di ricostruirsi una vita. Con simili “provvedimenti”, la situazione naturalmente non accenna a cambiare. Dopo aver costruito un nuovo carcere (l’unico esistente è ormai sovraffollato), allora le autorità decidono di tentare il tutto per tutto: trasformare la città in una località turistica di richiamo. Quello che si suol dire un deus ex machina. Vengono così costruiti un lussuosissimo albergo e un grande centro commerciale, destinati ovviamente a rimanere vuoti e a fallire in pochi mesi, dal momento che difficilmente un luogo spettrale in cui regnano sovrane povertà, disoccupazione e disperazione può divenire per magia una ambita meta turistica.
Dal documentario di Moore emerge una sorta di atmosfera post-apocalittica che non sfigurerebbe affatto in un film catastrofico e che ci mostra l’altra faccia dell’America di Reagan. Un'America in cui il tradizionale mito della “seconda possibilità” è destinato miseramente a non trovare spazio e dove, come narra la voce fuori campo di Michael Moore in conclusione, alla fine del ventesimo secolo “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. Di fortissimo impatto la sequenza in cui con un insistente montaggio parallelo vengono mostrati gli sfratti che, come ogni giorno precedente, il vice-sceriffo sta compiendo anche alla vigilia di natale. Proprio mentre Roger Smith tiene il tradizionale discorso a un gruppo di suoi dipendenti, in cui elogia la bellezza e la magia del periodo natalizio e il “suo spirito totalizzante”, ricordando che “la dignità e i valori umani sono il nostro patrimonio comune”. Pur essendo meno conosciuto, Roger & Me è da considerarsi a buon diritto al livello di Bowling A Columbine, Farenheit 9/11, Sicko e dell'ultimo Capitalism: A Love Story.
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