Clint Eastwood (San Francisco, 1930) è uno dei più importanti cineasti viventi. Notevole punto di forza nell'arco della sua lunghissima carriera cinematografica, cominciata come attore e proseguita a partire dagli anni Settanta ancor più gloriosamente come regista (non perdendo mai la voglia di dirigersi e mettersi così doppiamente in gioco), è il suo essere stato sempre poco incline a mode e tendenze, fedele a un'idea di cinema vicina a quella di grandi classici quali Ford, Hawks o Anthony Mann. Ha seguito un affascinantissimo e del tutto personale percorso di crescita artistico-registico, passando quasi come un oggetto estraneo e anacronistico attraverso la New Hollywood e tutti gli sviluppi successivi dell'industria cinematografica a stelle e strisce. Non a caso, è stato da molti definito come “l'ultimo dei classici”: quando in America arrivavano gli echi della Nouvelle Vague, il buon Clint dirigeva film di genere che tutto sommato rispettavano i canoni del cinema classico tradizionale (da Brivido nella notte del 1971 a Il texano dagli occhi di ghiaccio del 1976); quando, tra gli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, il cinema hollywoodiano si orientava verso un tripudio di effetti speciali e la forma-tipo del blockbuster, ha partorito opere radicalmente démodé come Bronco Billy (1980), Honkytonk Man (1982), Il cavaliere pallido (1985), Bird (1988), Cacciatore bianco, cuore nero (1990), Gli spietati (1992). Spirito libero, ingiustamente riconosciuto dalla critica come un grandissimo solo in seguito alla metà degli anni ottanta, da Mystic River (2003) si è stabilizzato su standard elevatissimi, non sbagliando mai un film, come gli era successo in passato con gli scialbi Firefox (1982) e La recluta (1991).
Una delle peculiarità dell'Eastwood regista, sta nella capacità straordinaria di delineare storie solide che appassionano e catturano dal primo all'ultimo minuto, dando in ogni momento l'impressione di avere tutto il materiale diegetico ben sotto controllo. Questa sua indiscussa abilità è già visibile nell'interessante esordio dietro la macchina da presa: in Brivido nella notte, che si alimenta di una regia di stampo classico ma con diverse “aperture” (sequenza musicale di qualche minuto, come tributo al jazz, che ha molto marginalmente a che fare con la narrazione, uso della macchina a mano piuttosto marcato in determinati frangenti), lo spettatore si identifica fin da subito con il disc-jockey da lui stesso interpretato, la cui vita viene sconvolta da un'invasiva e disturbata ammiratrice. A tutto ciò, ovviamente, si lega a doppio filo la sua nota concezione dello stile e della regia: vale a dire il non essere legato ad una particolare pratica stilistica, in nome delle mutevoli esigenze narrative. Quando si incontra il cinema di un grande regista, si finisce praticamente sempre nell'imbattersi in questo tipo di discorso. Tale fondamentale tratto formale generalmente porta con sé, oltre alla compresenza di diverse modalità di ripresa all'interno di una stessa pellicola, anche l'interesse per la contaminazione dei generi — altro topos che accomuna tutti i cineasti di un certo rilievo. Il cinema di Eastwood è pieno di esempi del genere: la macchina a mano, cui si faceva riferimento poc'anzi in relazione agli “squarci” eastwoodiani all'interno di una struttura tradizionalmente classica, utilizzata in momenti particolarmente concitati viene ad esempio diverse volte abbinata ad atmosfere dark che rimandano all'immaginario horror (lo stesso Brivido nella notte, ma anche Lo straniero senza nome, 1973, e persino l'ultimo Changeling, 2008).
Insomma, un cineasta che sia degno di questo nome, proprio come ogni artista che si rispetti, è necessario che abbia nell'eclettismo una componente fondamentale della propria personalità artistica. Ed Eastwood da questo punto di vista certo non fa eccezione. Continuando brevemente il complessivo discorso stilistico-estetico, val la pena riferire sinteticamente della passione del regista ormai settantottenne per le soggettive, sempre particolarmente evocative, e per le semi-soggettive, inquadrature in cui la cinepresa è posizionata alle spalle o appena di fianco al personaggio che guarda. La semi-soggettiva sarà sempre presente in tutto il cinema eastwoodiano, pur essendo utilizzata in modo veramente sistematico solo nel trittico western che anticipa il capolavoro Gli Spietati (Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio e Il cavaliere pallido).
La figura stilistica della soggettiva, invece, ci porta a parlare del dittico del 2006 costituito da Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, incentrato sulla cruenta battaglia consumatasi verso la fine del secondo conflitto mondiale nella piccola isola di Iwo Jima. Queste due pellicole, allo stesso tempo complementari e totalmente autonome (la visione di una non richiede necessariamente quella dell'altra), costituiscono insieme un'esperienza cinematografica fuori dal comune: in Flags of Our Fathers viene rappresentata la guerra dal punto di vista dei marines americani, in Lettere da Iwo Jima lo sguardo privilegiato è quello dei soldati nipponici. Nessun altro, perlomeno nell'ambito del cinema bellico statunitense, aveva mai fatto una cosa di questo tipo. Come scrive Alberto Pezzotta nel Castoro dedicato ad Eastwood, infatti, anche se già vi erano stati film che avevano come protagonisti soldati nazisti (I giovani leoni di Dmytryk del 1959, La croce di ferro di Peckinpah del 1977) o mettevano sullo stesso piano un nemico rispetto ad un americano (Duello nell'Atlantico di Dick Powell del 1957 o Duello nel Pacifico di Boorman del 1968), Lettere da Iwo Jima va ben oltre, essendo un “letterale controcampo di Flags of Our Fathers” che “mette in scena l'americano come nemico, rappresentandolo dall'esterno. (...) E ciò è tanto più audace in quanto alla differenza di fronte si aggiunge quella di cultura e di lingua”.
Il sincero sforzo, quasi da antropologo, di comprendere una cultura altra rispetto a quella d'appartenenza, per poi mettere in luce con forza ed un variabile grado di esplicitazione quell'indissolubile legame che ci unisce tutti in quanto esseri umani, fa forse di Lettere da Iwo Jima il lavoro concettualmente più significativo dell'intera opera eastwoodiana. Questo legame ci sembra sia sottolineato dal punto di vista stilistico, in entrambi i film, attraverso l'utilizzo di una soggettiva che è molto spesso legata a visioni di morte (in diversi casi l'oggetto dello sguardo in un'inquadratura soggettiva sono brandelli di corpo senza vita), come a sottolineare che l'identificazione dell'uomo di qualsivoglia razza o credo con la guerra non può che passare attraverso il lutto. Sia Flags of of Our Fathers che Lettere da Iwo Jima sono però anche, come il cinema di Eastwood tutto, un'amara riflessione sulla solitudine dei singoli individui, lasciati in balia di se stessi e per nulla tutelati dalle autorità che detengono il potere e che dovrebbero, almeno sulla carta, garantire protezione e giustizia.
Il sincero sforzo, quasi da antropologo, di comprendere una cultura altra rispetto a quella d'appartenenza, per poi mettere in luce con forza ed un variabile grado di esplicitazione quell'indissolubile legame che ci unisce tutti in quanto esseri umani, fa forse di Lettere da Iwo Jima il lavoro concettualmente più significativo dell'intera opera eastwoodiana. Questo legame ci sembra sia sottolineato dal punto di vista stilistico, in entrambi i film, attraverso l'utilizzo di una soggettiva che è molto spesso legata a visioni di morte (in diversi casi l'oggetto dello sguardo in un'inquadratura soggettiva sono brandelli di corpo senza vita), come a sottolineare che l'identificazione dell'uomo di qualsivoglia razza o credo con la guerra non può che passare attraverso il lutto. Sia Flags of of Our Fathers che Lettere da Iwo Jima sono però anche, come il cinema di Eastwood tutto, un'amara riflessione sulla solitudine dei singoli individui, lasciati in balia di se stessi e per nulla tutelati dalle autorità che detengono il potere e che dovrebbero, almeno sulla carta, garantire protezione e giustizia.
Questo tema si riconferma in modo evidente e con particolare forza espressiva in Changeling: la storia della strenua lotta di una madre che, nel tentativo di riabbracciare il proprio figlio rapito, si imbatte suo malgrado nella dilagante corruzione dell'intero dipartimento di polizia di Los Angeles, colpisce al cuore ed è sviluppata con la ormai celebre sapienza narrativa del regista californiano. Lo spettatore prova sulla propria pelle l'angoscia della tenace protagonista e la pellicola si rivela un dramma con insospettabili sfumature horror, che sono poi quelle niente affatto astratte della follia umana. Una breve sequenza è davvero molto interessante: la sorpresa del bimbo sostituito (da qui il titolo originale) viene anticipato di qualche secondo da un passaggio di montaggio deciso e poco fluido, quasi ad avvertire subliminalmente lo spettatore che a breve assisteremo a qualcosa che non quadra. Un altro dei piccoli “squarci” all'interno di quello stile asciutto e “classico” tipicamente eastwoodiano.
Articolo pubblicato nel numero 10 di Cinem'Art (Gennaio 2009)
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