domenica 5 settembre 2010

Venezia 67: "Il cigno nero" di Darren Aronofsky e "Somewhere" di Sofia Coppola


Era da anni che il film d’apertura del festival di Venezia non risultava così convincente. Dopo tre giorni di proiezioni, il Cigno nero di Darren Aronofsky è ancora, di gran lunga, l’opera più significativa vista in concorso. La bella Nina (Natalie Portman) è una ballerina del New York City Ballet ormai giunta all’età limite per poter sfondare. Le giornate della danzatrice, assai talentuosa ma imprigionata nel rigore della tecnica, passano monotone e senza sussulti. La solitudine regna sovrana nella sua vita. Al di fuori dell’ambiguo rapporto con la madre, ex ballerina che racconta di aver rinunciato ad un futuro da star una volta rimasta incinta (ma sarà poi vero?), Nina non ha nessuno. Con le colleghe non lega e l'assidua ricerca del successo la porta a convivere con uno stress quotidiano che ben presto degenera in ossessione. Il regista newyorchese Leone d’Oro nel 2008 per The Wrestler narra con forza e un’evidente padronanza del mezzo l’universo emotivo-psicologico della protagonista, trascinando di peso lo spettatore negli oscuri meandri della sua mente.

Facendo ricorso ad una fotografia in digitale costantemente tendente al nero, Aronofsky tratteggia con maestria un thriller psicologico allucinato e disturbante, in grado di coinvolgere chi guarda in modo davvero sorprendente. Il tutto riallacciandosi ad uno dei grandi topoi della sua sin qui ristretta filmografia: l’analisi dell’ossessione umana (se Natalie vuole assolutamente diventare la prima ballerina dello spettacolo "Il lago dei cigni", il Maximilian di Pigreco tenta in tutti i modi di trovare la formula matematica che gli permetta di anticipare gli andamenti della borsa di Wall Street, così come il Tom di The Fountain cerca disperatamente di trovare una cura per la moglie malata di cancro), spesso connessa a doppio filo al beffardo rovesciamento di quel Sogno Americano che per Aronofsky sovente si configura come un insuperabile ostacolo culturale per la corretta formazione dell’individuo.
Il finale de Il cigno nero è potente e forse rappresenta l’ideale sigillo ad un personalissimo percorso cinematografico suggestivo e di grande impatto, fondato sulla sistematica decostruzione dell’American Dream e, di riflesso, delle possibilità strutturanti dell’happy-end. Ora però al cineasta di Brooklyn, dopo aver scandagliato questi temi nei modi più svariati, chiediamo un ulteriore passo in avanti: perché non cambiare definitivamente rotta e dirigersi verso altri lidi? Dal suo sesto film, sul piano tematico, ci aspettiamo una svolta.

Più di Aronofsky, il quale comunque ad ogni sua opera aggiunge alcuni elementi di novità (si pensi alla suggestiva storia d'amore trans-secolare di The Fountain o al rapporto padre-figlia tratteggiato in The Wrestler), avrebbe bisogno di sperimentare nuove direzioni artistiche Sofia Coppola. Il suo Somewhere, presentato in Laguna due giorni dopo Black Swan, è un ottimo film minimalista, una piccola affascinante storia della malinconica vita della giovane star cinematografica Johnny Marco (uno Stephen Dorff in pieno stile Bill Murray), ormai assuefatta ai privilegi della fama e fondamentalmente oppressa da una scarsa autostima. Alcuni inaspettati giorni trascorsi con la figlia undicenne (interpretata ottimamente da Elle Fanning), con la quale non ha quasi alcun tipo di rapporto, forse rappresenteranno la svolta che cercava.
Solitudine, malinconia, attitudine introspettiva: gli ingredienti del cinema della Coppola, per quanto sapientemente intrecciati e accompagnati da una impeccabile scrittura alla costante ricerca dell’essenzialità e da un regia discreta sempre funzionale ai risvolti narrativi, sono sempre gli stessi dei suoi tre film precedenti (Il giardino delle vergini suicide, Lost in translation e Maria Antonietta). Certo, è vero che abbiamo a che fare con una cineasta neanche quarantenne e con alle spalle sole quattro opere, ma da un talento come lei è lecito aspettarsi un cambio di registro.

Esattamente ciò che servirebbe ad un altro grande talento nordamericano sorto negli anni novanta del Novecento: Wes Anderson. L’ultimo Fantastic Mr. Fox sul piano dei contenuti è forse sin troppo aderente ai suoi precedenti lavori, discostandosene sul piano stilistico nella misura in cui si tratta di un cartone animato realizzato in gran parte in stop-motion. Per questi autori la sfida, dunque, è la medesima: confrontarsi, sin dalla prossima opera, con qualcosa di radicalmente diverso. Tanto per essere espliciti, ciò che è riuscito a fare mirabilmente il loro coetaneo Paul Thomas Anderson dopo Magnolia, con Ubriaco d’amore e Il petroliere. Aspettiamo fiduciosi, le potenzialità ci sono tutte.

2 commenti:

  1. la coppola la guardo solo sotto terapia ludovico. lost in translation m'è bastato...
    discorso opposto per aronofsky, sempre intrigante anche quando come in wrestler non è al suo massimo. il cigno nero ovviamente è obbligatorio per me.

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