sabato 8 maggio 2010

L'infinita letizia di una mente candida: l'estetica del sogno nel cinema di Michel Gondry


Dopo lo spazio dedicato al cinema dei due Anderson, di Michael Mann, Kathryn Bigelow e Clint Eastwood, continuiamo idealmente il nostro viaggio nel grande cinema americano contemporaneo occupandoci del quarantacinquenne Michel Gondry, il cineasta francese che da anni lavora negli Stati Uniti con una certa continuità e del quale è recentemente uscito Be Kind Rewind (2008). Stimato regista di pubblicità televisive e videoclip, esordisce nella settima arte con il bizzarro lungometraggio Human Nature (2001), a cui seguono il sublime Eternal Sunshine of a Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello, 2004) e il poeticamente eccentrico L’Arte del Sogno (2006). Nel 2005 dirige Block Party (inedito in Italia), una sorta di documentario musicale che alterna interventi del comico Dave Chappelle a performance di grandi personalità dell’hip-pop americano. A maggio del 2008 è stato presentato a Cannes Tokio!, un film composto da tre episodi ispirati alla metropoli nipponica a cui ha partecipato con Interior Design.
Human Nature, scritto da Charlie Kaufman, è una commedia molto divertente che ragiona beffardamente, e in maniera non banale, sulla indissolubile conflittualità tra civiltà e impulsi istintivi presente negli esseri umani. Interpretato da Patricia Acquette e Tim Robbins, uno scienziato un po’ fuori di testa ossessionato dall’idea di insegnare le buone maniere ai topi, è un lavoro ironico e piacevole, ma che non raggiunge la profondità e la maturità delle opere del 2004 e del 2006.
Tanto Eternal Sunshine quanto L’Arte del Sogno si concentrano sulla dimensione mentale dei rispettivi protagonisti ed al centro di entrambi c’è una storia d’amore. Così come in ambedue vi è uno sfondo piuttosto esplicito di malinconia e tristezza, ma anche un barlume di speranza (spesso affidato alla soggettività dello spettatore). Se il primo è una delle più intense, poetiche e commoventi rappresentazioni cinematografiche del rapporto di coppia, il secondo è un appassionato e seducente inno al potenziale immaginifico e creativo della mente umana: una straordinaria dichiarazione d’amore alle sue affascinanti, misteriose ed infinite (a volte anche crudeli) possibilità.
Eternal Sunshine deve molta della sua efficacia e della sua originalità alla particolare tessitura narrativa dettata dallo straordinario script, che ha giustamente fruttato a Kaufman l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale. È solo attraverso il geniale escamotage legato alla possibilità di cancellare la memoria di una persona dalla propria mente, infatti, che il film riesce a presentare, andando avanti e indietro nel tempo (o meglio, nelle memorie del protagonista), i momenti più significativi del rapporto tra Joel e Clementine, interpretati in modo superbo da Jim Carrey e Kate Winslet. E soprattutto è grazie a questa trovata che è stato possibile mettere in scena una delle sequenze più toccanti della pellicola: i due, dopo aver ascoltato le rispettive audiocassette (registrate poco prima di cancellarsi l’un l’altro dalla memoria) in cui descrivono il partner in modo feroce, scoprono di essere già stati insieme in precedenza e, pur essendosi da poco conosciuti per la seconda volta, sono già nelle condizioni di sapere tutto ciò che detestano dell’altro e che molto probabilmente contribuirà ancora a creare difficoltà nel loro rapporto. In ogni caso, decidono di riprovarci. Come andrà a finire la loro storia? La maggiore consapevolezza li renderà più forti o continueranno inesorabilmente a fare gli stessi errori, come sembrano suggerire le ultimissime immagini del film, che mostrano un istante ripetuto per ben tre volte della corsa di Joel e Clementine su una spiaggia innevata?


Il finale è sospeso ed aperto a ogni interpretazione, così come lo sarà quello de L’Arte del Sogno. Eternal Sunshine raggiunge vette di liricità proprie della grande opera d’arte e Gondry (autore del soggetto insieme a Kaufman e Pierre Bismuth) mette in gioco la sua straordinaria abilità nel tradurre tutto ciò in immagini di una bellezza ammaliante e in trovate estetiche “povere” e geniali, spesso legate ad un evidente e funzionale – dal momento che si vuole mettere in scena la “materia dei sogni” – spirito fanciullesco. Caratteristiche estetiche che saranno tutte riconfermate nel film successivo e che potremmo azzardare rappresentino per ora il segno principale dell’autorialità di Gondry.

Con L’arte del Sogno, il cineasta di Versailles si cimenta per la prima volta anche nella scrittura per il cinema. Siamo lontani dai tortuosi meccanismi narrativi di Eternal Sunshine e l’azione è fondamentalmente lineare, pur passando continuamente dalla dimensione del sogno a quella della realtà, fino alla impossibilità di determinatezza di entrambe. In molti hanno detto e scritto che L’Arte del Sogno, rispetto a Eternal Sunshine, sarebbe meno solido e convincente per quanto concerne la struttura narrativa. Mereghetti, interpretando il pensiero dei più, etichetta il film sul suo celebre dizionario, pur apprezzandolo, come “più personale ma meno compatto”. Sul “più personale” non ci sono dubbi: Stéphane Miroux è evidentemente un alter-ego del cineasta francese, e la palese passione con la quale viene tratteggiata la bizzarra figura del devoto e goffo sognatore (che desidererebbe fare come professione l’inventore) sta proprio lì a dimostrarlo. È sul “meno compatto”, però, che non siamo affatto d’accordo con il critico cinematografico milanese. L’Arte del Sogno, a nostro avviso, risulta strettamente unito in tutte le sue parti e, in ultima analisi, profondamente coerente. Il punto di vista che presenta l’opera è quello di Stéphane e la forma cinematografica ovviamente ne risente, anzi è modellata di conseguenza. L’obiettivo di Gondry è quello di far provare allo spettatore l’esperienza quotidiana del protagonista, il quale fin da piccolo è stato soggetto a frequenti episodi di inversione tra sogno e realtà. È del tutto necessario, quindi, che la condizione del fruitore della pellicola, con lo scorrere dei minuti, divenga sempre più chiaramente omologa a quella di Stéphane, la cui vita è fortemente condizionata da quello che è in tutto e per tutto un disturbo psichico. Non ci è dato mai sapere con certezza, fino in fondo, quali dei fatti che appaiono sullo schermo possano essere effettivamente considerati “reali”. Moltissime sequenze del film, anche quelle che apparentemente potremmo più facilmente associare alla vera vita di Stéphane, presentano dei tratti e degli aspetti onirici e surreali più o meno espliciti. Ecco dunque che i confini tra realtà e irrealtà, fatti e sogni, tendono a essere sempre più sottili, imprecisi e indefiniti. Fino alla significativa sequenza finale (chiaramente onirica), in cui Stéphane e Stéphanie, la ragazza di cui è innamorato, raggiungono con un cavallo di stoffa una barca di tessuto e si dirigono con essa verso il mare aperto, fatto di cellophane. L’Arte del Sogno riesce a restituire in maniera poetica, attraverso il linguaggio delle immagini, la magia e la forza ora redentrice ora manipolatrice dei flussi chimici del nostro cervello e degli incredibili ed innumerevoli mondi “virtuali” ad essi collegati. La pellicola è, come ogni lavoro di Gondry, anche un’esperienza visiva di altissimo livello, impeccabile dal punto di vista estetico e che riesce a sfruttare in modo eccellente la povertà dei mezzi a disposizione, utilizzando abilmente le svariate creazioni di stoffa e feltro dell’artista Lauri Faggioni e ricorrendo ad effetti speciali artigianali per animarle.


Con la sfera del sogno ha a che fare anche Be Kind Rewind, lungometraggio commovente e surreale, orgogliosamente per cinéphiles, intriso di amore per la settima arte dal primo all’ultimo fotogramma. Narrando la storia di due amici (interpretati da Jack Black e Mos Def) che rigirano amatorialmente i film smagnetizzatisi della videoteca dove lavora uno di loro, Gondry si mette completamente a nudo e dà libero sfogo alla propria inventiva per dare forma al suo irrefrenabile e appassionato desiderio di immagini in movimento. Cinema che sogna, sogni di celluloide: Michel Gondry è il regista che più di ogni altro è affascinato dal mettere in evidenza le potenzialità ontologicamente oniriche del mezzo cinematografico, il linguaggio artistico per sua stessa natura più vicino a quello dei sogni e della mente umana. All’insegna del motto Eternal Sunshine of a Spotless Mind, appunto: l’infinita letizia di una mente candida.


Pubblicato nel numero 5 di Cinem’Art (Giugno 2008)

5 commenti:

  1. "se mi lasci ti cancello" lo ho sempre immaginato una commediola stupida(colpa della traduzione italiana del titolo?)non sapevo nemmeno che fosse di Gondry.Provvedo presto e me lo vedo...grazie luca!

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  2. Su Gondry e Kaufman ho fatto la tesi, innamorata persa dei loro film! Se ti va dacci un'occhio http://incentralperk.blogspot.it/p/charlie-kaufman.html

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  3. Ho visitato il tuo bel blog, che non conoscevo. Non appena avrò un po' di tempo, leggerò anche il tuo estratto della tesi. A presto!

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  4. Sono profondamente d'accordo sul giudizio riguardo L'arte del sogno, in effetti è stato un po' sottovalutato! :)

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    1. Ciao Fexxonji, mi fa piacere che concordi con me: trovo "L'arte del sogno" un vero gioiellino!

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