Per parlare del lavoro di uno dei registi più interessanti apparsi di recente nel panorama statunitense, che a conti fatti nel suo settore indipendente è con ogni probabilità il movimento cinematografico attualmente più intenso e pulsante, ci sembra opportuno partire da Requiem for a Dream (2000): il vero, autentico capolavoro di Darren Aronofsky (Brooklyn, New York, 1969). E in particolare ci sembra stimolante partire da quella che può essere considerata la sua lunghissima sequenza finale (della durata di ben ventitré minuti).
Questa organica macro-sequenza è quanto di più logorante, devastante e disperante sia stato visto nel (visibile) cinema americano degli ultimi vent'anni, e probabilmente non solo. Attraverso un montaggio alternato serratissimo e gestito con una notevole sapienza drammaturgica, Aronofsky ci propone l'evoluzione ultima delle vicende dei quattro personaggi protagonisti (i fidanzati tossicodipendenti Marion e Harry, il loro amico Tyrone e la madre di Harry, Sara), che si svolgono su differenti piani spaziali. Il montaggio e i movimenti della macchina da presa accelerano all'unisono in corrispondenza dell'ipnotico refrain del celebre motivo musicale Lux Aeterna di Clint Mansell (poi ripreso da molteplici film e trailer promozionali proprio in virtù del suo straordinario ritmo incalzante), che ha un ruolo di primissimo piano nell'instaurazione di un indissolubile rapporto empatico con lo spettatore. Quest'ultimo si ritrova infatti ferocemente catapultato al centro di un vortice emozionale senza precedenti, allo stesso tempo sublime e lugubre, affascinante e ripugnante per il suo essere fatalmente slegato da ogni possibilità di via d'uscita o redenzione. Marion si prostituisce in cambio di eroina davanti ad un eccitato e depravato pubblico di alto-borghesi, poi torna a casa sconvolta ma sorride stringendo tra le mani la sua dose; ad Harry viene amputato il braccio irrimediabilmente infettato nel quale per tutto il film si buca; l'anziana e sola Sara (una straordinaria Ellen Burstyn), viene ricoverata in una clinica psichiatrica dalla quale si intuisce non uscirà mai; Tyrone, invece, ci viene mostrato dietro le sbarre di una prigione, in crisi d'astinenza, mentre sogna la madre e la perduta sicurezza dell'infanzia. E il cerchio di celluloide si chiude perfettamente: se tutto era iniziato con un programma televisivo visto da Sara nel suo spoglio salotto, tutto finisce con una allucinazione della stessa donna, la quale, sdraiata su un lettino della clinica, si sogna ospite del medesimo show nell'atto di ricongiungersi con il figlio, che immagina sistemato e in procinto di sposarsi. Tutto Requiem for a dream, di cui la macro-sequenza appena descritta è chiaramente paradigmatica, è una rappresentazione allegorica – ma anche, e speriamo davvero di avere reso perlomeno in minima parte l'idea, prepotentemente materica – della dissoluzione del Sogno Americano e del connesso Mito della Seconda Possibilità.
Non è certo un caso se a film appena iniziato, ad anticipare la materializzazione sullo schermo del titolo della pellicola, subito dopo l'arrivo di Harry a casa della madre, giunto per l'ennesima volta a sottrarle il televisore per impegnarlo allo scopo di trovare i soldi per farsi, si odano le seguenti parole di lei: “Tutto questo non è vero. Oppure sì, se è vero, poi tutto si aggiusta (...) Tutto si aggiusta. Lo sai com'è, no? Tutto si aggiusta!”. E a questa frase corrisponderanno come piccoli echi disseminati lungo l'arco del film frasi analoghe scambiate tra i diversi personaggi, del tipo: “Andrà tutto bene, Harry”, “Sì, lo credo anch'io”. O ancora: “Sarà perfetto, sarà come prima. Te lo prometto Marion”. Tutte frasi a cui i protagonisti ricorrono per disperazione e per istinto di sopravvivenza, senza in fondo neanche crederci più di tanto. Frasi che fanno presagire che le cose per loro non miglioreranno affatto, anzi saranno destinate progressivamente (e drammaticamente) a peggiorare.
Ad Aronofsky preme sottolineare, e lo fa con una fortissima carica provocatoria, che “non esistono secondi atti nella vita degli americani”, come premetteva Clint Eastwood nella didascalia d'apertura del suo capolavoro Bird (1988), citando Gli ultimi fuochi dello scrittore statunitense Francis Scott Fitzgerald. Non c'è spazio per la speranza, la riconciliazione o l'edulcorazione in Requiem for a Dream: e in questo contesto non deve sorprenderci il fatto che il film sia diviso in tre episodi, corrispondenti in ordine cronologico alle stagioni estiva, autunnale e invernale. Nel mondo di Darren Aronofsky all'Inverno (che coincide simbolicamente con l'intera macro-sequenza) non segue automaticamente la Primavera. Una situazione di impasse non è il necessario preludio di una risoluzione, come da copione secondo gli intrecci e i canoni del cinema americano mainstream.
Anche The Wrestler (2008), Leone d'Oro all'ultima edizione del Festival di Venezia e magnificamente interpretato da Mickey Rourke, sta tutto dentro questo tipo di discorso, dal momento che narra la tragica storia di un ex campione del wrestiling ridottosi a disputare qualche sporadico incontro di infimo livello per tirare a campare. Il giovane regista newyorchese, con questi due lavori in particolare, sembra volerci gridare che il mondo reale, la nostra quotidianità, è colma di storie che non si concludono con un happy-end. E sono queste le storie alle quali si appassiona, dalle quali è fortemente attratto: vicende che hanno sempre a che fare con personaggi in crisi, per i più svariati motivi, e che il più delle volte sono legate a ossessioni logoranti e accecanti, foriere di uno stato allucinatorio.
Cosa sono, alla resa dei conti, Pi Greco – Il teorema del delirio (1998) e The Fountain – L'albero della vita (2006), se non due storie, lontanissime tra loro, di una accecante ossessione?
Pi Greco è la folgorante opera prima incentrata sulla tormentata vita di Max, un geniale matematico ebreo afflitto da violente emicranie e ossessionato dall'idea di trovare nei numeri l'essenza ultima della vita. Profondamente convinto di poter scoprire lo schema matematico che sta alla base di tutte le molteplici manifestazioni fenomeniche, finirà in uno sconvolgente vortice di follia, allucinazioni e autodistruzione in cui i confini tra realtà e sogno sono completamente dissolti. A questo tipo di ossessione si sostituisce, in The Fountain, quella del medico Tom Creo, alla disperata ricerca di una cura per il cancro al fine di salvare la vita della moglie, giovane, bellissima e malata. Anche qui, forse, l'ambiziosa e delirante ossessione porterà il protagonista ad uscire fuori di senno e a scivolare progressivamente in mondi altri. In The fountain, però, opera di primissimo piano dal punto di vista registico e figurativo, giocata sapientemente su seducenti rimandi stilistico-formali interni al testo stesso, Aronofsky appare meno abile nel gestire la mescolanza tra mondo reale e mondo del sogno/allucinazione. L'enorme ambizione dell'impianto narrativo si sfalda così in un universo affascinantissimo ma anche confusionario, che dà l'impressione di essere sfuggito di mano al cineasta, complici molto probabilmente le non poche disavventure produttive che hanno segnato il progetto fin dalla sua genesi.
Tanto in Pi Greco quanto in The Fountain assolutamente centrale è l'apporto della colonna sonora, sempre composta dal fido Clint Mansell, ex leader della band britannica Pop Will Eat Itself. In tutti i lavori di Aronofsky la musica infatti si rivela sempre un forte veicolo di senso, dando una vera e propria articolazione ritmica al film e stabilendo con l'immagine un rapporto fecondo ed energico: una sinergia di rara efficacia. Il saggio più evidente di tutto ciò è indubbiamente Requiem for a Dream (e non solo per la macro-sequenza dell'Inverno su sui ci siamo precedentemente concentrati), ma vi sono anche esempi particolarmente interessanti in Pi Greco, dove i momenti di crisi del protagonista sono sottolineati, oltre che da un montaggio veloce e dal susseguirsi di una serie di dettagli del suo volto sofferente, da un leit motiv sonoro composto da disturbanti e invasivi rumori di diversi trapani in azione. In questo caso lo stratagemma studiato è tanto semplice quanto efficace, e lo spettatore, volente o nolente, viene pervaso da una profonda sensazione di disagio, arrivando quasi a provare sulla propria pelle il dolore cui è soggetto il personaggio del film. È inoltre interessante notare come in Pi Greco ogni volta che Max prende dei farmaci per tenere sotto controllo le sue terribili emicranie, il cineasta decida di usare una combinazione ripetuta di rapide inquadrature, che sono poi sempre dei dettagli: di una mano che apre la confezione delle pillole, di un palmo di una mano con delle pillole, di una bocca che si apre per ingoiarle, e ancora di una mano che chiude la confezione precedentemente aperta. Come scrive acutamente Geoff King in Il cinema indipendente americano (Einaudi, 2006), questa tecnica verrà estesa da Aronofsky in Requiem for a Dream, “fino a farne il principio estetico centrale”. In tutto il film infatti si gioca con uno stratagemma estetico similare a quello appena descritto (ovviamente le immagini variano) “per suggerire un'impressione dell'esperienza di assunzione di droga”. E la cosa si fa ancor più interessante quando attraverso lo stesso intrigante aspetto formale viene sottolineato come per Sara la visione televisiva sia una vera e propria droga, come lo è l'eroina per il figlio.
Quello di Darren Aronofsky è un cinema problematico, sentito, sofferto e appassionato, che indaga con forza ossessioni e allucinazioni, sempre a stretto contatto con l'innata tendenza umana a cercare di superare i propri limiti e a scontrarsi periodicamente con la propria ontologica fallibilità. Dopo Paul Thomas Anderson, ci sembra che sia lui il regista americano che più di ogni altro negli ultimi anni abbia mostrato capacità visionarie e intuizioni narrative prorompenti. Il fatto che ad oggi crescano talenti purissimi come questi, in grado tra l'altro di affermarsi molto giovani (Anderson ha diretto Magnolia a 29 anni, Aronofsky Requiem for a Dream a 31), fa veramente ben sperare per il prosieguo della settima arte: a nostro avviso, è possibile pensare a una nuova generazione di grandi registi americani degni di succedere ai loro illustri predecessori. E i due che abbiamo appena citato, bastano da soli a mettere in crisi la posizione di quei cinici che pensano che in cento e più anni di storia del cinema tutto sia già stato inesorabilmente detto e fatto.
Pubblicato nel numero 11 di Cinem'art (Febbraio 2009)
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