“Stai bene, Taylor?”
“No, non tanto”
“Che c'è?”
“Non lo so, mi sento come divorziato dal mondo. Ho perso i contatti col mondo. Tu conosci quel leid di Mahler, Del mondo perduto ogni traccia?”
“No”
“Uno dei brani più belli e tristi che siano mai stati scritti. Sai che mi sembra quasi di sentirlo? Tu non lo senti?”
Con questo dialogo tra i due anziani attori Bill Rice e Taylor Mead in pausa caffè si apre Champagne, significativamente l'ultimo breve episodio di Coffee and Cigarettes (2003). Il celebre film di Jim Jarmusch è composto da undici episodi in cui i rispettivi protagonisti (due o tre a seconda dei casi) sono seduti davanti ad un tavolo a bere caffè e/o a fumare sigarette, conversando tra loro dei più svariati argomenti, con surreale licenza di compiere stranianti voli pindarici senza alcun nesso logico. Nello stesso episodio, tanto per rendere l'idea, dopo aver ascoltato il discorso di Taylor su Mahler, Bill se ne esce del tutto estemporaneamente affermando che “Nicola Tesla immaginò la terra come conduttore di risonanza acustica”. E alla richiesta di Taylor di essere più chiaro (“Non so di cosa stai parlando Bill. Potresti spiegarti meglio?”), Bill risponde negativamente, non dando seguito alla fulminea affermazione che colpisce in quanto totalmente fuori contesto. I due cambieranno nuovamente argomento, arrivando a discorrere en passant, nello spazio di un paio di minuti (l'episodio ne dura esattamente sei ed è il più corto del film), della Parigi degli anni venti e della New York degli anni settanta.
Tornando a concentraci sul dialogo citato in apertura, ci sembra sia possibile affermare che questo breve passaggio dialogico può essere considerato a buon diritto come una sorta di dichiarazione di poetica del regista americano nato nel 1953 ad Akron, Ohio. È come se Jarmusch, in chiusura del suo nono lungometraggio, avesse voluto sinteticamente e quanto mai felicemente definire, consapevolmente o meno poco importa, i propri personaggi cinematografici. Gli esseri umani che popolano l'intero suo cinema, infatti, dall'esordio di Permanent Vacation (1982), passando ad esempio per Mystery Train (1989) o Ghost Dog (1999) sino a Broken Flowers (2005), non avrebbero potuto essere meglio descritti: tutti i personaggi delle pellicole del cinquantaseienne cineasta sono in effetti piuttosto evidentemente “divorziati dal mondo”. Come appunto afferma Taylor riferendosi a se stesso, ognuno di loro, per differenti ragioni che naturalmente cambiano da film a film, hanno in forme diverse perso contatto con l'ambiente in cui vivono, chi più chi meno. Questi personaggi sono poi sempre segnati da una profonda solitudine, attenuata ora in misura maggiore ora in misura minore dalla costante presenza di un'atmosfera comico-surreale: si pensi, giusto per fare un esempio che non esuli dalla produzione jarmuschiana del film episodico, a Taxisti di notte (1991), lungometraggio che consta di cinque episodi ambientati in altrettante città in cui dei tassisti caricano dei passeggeri e li portano (non sempre per la verità) a destinazione. Come nel caso di Coffe and Cigarettes, ma potremmo dire dell'intera opera di Jarmusch, la struttura del film è assai semplice: in questo caso la macchina da presa si limita a seguire le bizzarre corse a pagamento. Tanto i tassisti quanto i passeggeri sono in qualche modo spaesati, inquieti, sembra che abbiano perso la bussola che permette loro di orientarsi in quel viaggio difficilmente decifrabile che è la vita. E lo sfondo prevalente, soprattutto negli episodi americani, è quello di una sottile ma greve malinconia che va di pari passo con la messa in scena di luoghi quanto mai lontani dalla loro consueta rappresentazione mitica: Los Angeles, New York, Parigi, Roma e Helsinki, più volte omaggiate dallo sguardo di molti autori cinematografici, sono infatti presentate come città perlopiù spettrali, alienanti e persino sinistre. Per quanto la straordinaria abilità d'attore e la capacità comica e d'improvvisazione di Roberto Benigni possa catalizzare con forza l'attenzione dello spettatore, nell'episodio romano non può non risaltare la visione notturna di una capitale deserta e per certi versi ostile, così lontana dall'immagine da cartolina di quella che comunque per molti versi è una delle più belle città del mondo. In Stranger Than Paradise Bela, la cugina Eva e Eddie si spostano da New York a Cleveland e da Cleveland in Florida, per constatare l'inesorabile alienazione e desolazione di ognuno di questi luoghi: a Cleveland, mentre si trovano a parlare vicino a delle rotaie quasi completamente coperte dalla neve, Eddie dice all'amico Bela che “ogni posto sembra uguale agli altri”. Bela, disulluso, gli risponde: “Te ne sei accorto”. Per i perdenti che animano il cinema di Jarmusch non sembra poterci essere possibilità di riscatto, indipendentemente dal luogo in cui decidano di dirigersi.
Quello del regista nordamericano dunque, anche partendo dai luoghi che vengono messi in scena, è un cinema del disincanto che costantemente rifugge il mito, mettendone a nudo quella che è l'ontologica fallacità. Permanent Vacation, il suo lungometraggio d'esordio realizzato interamente con i fondi della New York University Graduate Film, è forse il film che più di ogni altro in tutta la storia del cinema ha presentato l'immagine di una Manhattan cupa, desolata, addirittura surrealmente devastata da bombe immaginarie — si pensi, per contrasto, al modo in cui è stato raccontato il medesimo luogo da Woody Allen in alcuni dei suoi film più riusciti. Il cinema di Jarmusch dunque produce un radicale e perentorio scardinamento dei topoi cinematografici su qualsivoglia piano questi possano essere intesi: luoghi, situazioni o generi.
Come detto a proposito della solitudine di cui ogni singolo personaggio jarmuschiano sembra essere preda, anche questa operazione scardinante appare, nel contesto filmico generale, in parte levigata e anche un po' mascherata dalla perenne atmosfera comico-surreale e malinconica che domina incontrastata tutti i lavori del cineasta statunitense. Dei luoghi abbiamo già sinteticamente parlato, per quanto riguarda situazioni e generi, invece, particolarmente significativi ai fini del nostro discorso sono Daunbailò (1986) e Dead Man (1995). Ma si potrebbe fare molti altri esempi.
Daunbailò ribalta ogni tipo di convenzione del cosiddetto escape movie, vale a dire quella sorta di sottogenere cinematografico del film d'azione in cui ci si incentra su un'evasione (solitamente da un carcere) compiuta dai personaggi principali. In questo caso il pathos legato alla fuga dei tre protagonisti (John Lurie, Tom Waits e Roberto Benigni) è pressoché inesistente e una discreta parte della pellicola è dedicata al loro incerto vagare per un bosco paludato che ben rappresenta lo stato di spaesamento e perdizione in cui versano. Molto nota è la scena finale in cui Lurie e Waits sono davanti ad una strada biforcata: non sapendo dove le differenti direzioni portino e non volendo i due per alcun motivo intraprendere un nuovo viaggio comune, scelgono arbitrariamente di andare in direzioni opposte, totalmente inconsapevoli del luogo in cui queste li condurranno.
Anche al centro della narrazione di Dead Man vi è un surreale e bizzarro vagare: William Blake (Johnny Depp) è un contabile di Cleveland della fine dell'Ottocento che, in seguito alla morte dei genitori, accetta una proposta di lavoro proveniente da una fabbrica dell'Arizona. Dopo aver compiuto un interminabile viaggio (presentato molto suggestivamente con una numerosa serie di dissolvenze al nero), troverà il posto che gli era stato offerto occupato da un'altra persona. Da qui inizierà un'attività errante che serve a chi dirige per destrutturare tempi, miti e atmosfere del western tradizionale. Il perseverante errare dei personaggi è un vero e proprio leitmotiv della poetica del regista di Akron ed è da lui messo in evidenza fin dal più volte citato Permanent Vacation. In questo piccolo film, che ha fatto subito circolare il nome del suo autore nell'ambito critico tanto in patria quanto in Europa, il protagonista Allie Parker è un giovane giramondo che ha la necessità di muoversi sempre, non essendo in grado di rimanere fermo in un posto e costruirsi una vita. Il ragazzo in apertura di film afferma: “Vado da un luogo a un altro, da una persona a un'altra (...) e dopo un po' il senso della novità sparisce per sempre; e rimane solo un senso di paura, una paura strisciante. Forse non capirete cosa intendo. Comunque, il fatto è che dopo un po' qualcosa, una voce, mi parla … e so che è ora. È ora di andarsene, di cambiare luogo”.
Per quanto queste parole esprimano senza dubbio il soggettivo stato di Allie Parker, ci pare che al contempo segnalino in qualche modo quel senso strisciante che porta spesso i personaggi che abitano il mondo jarmuschiano a viaggiare continuamente, sperduti, anche in cerca di se stessi. Cosa fa, alla resa dei conti, se non viaggiare alla ricerca di sé il Bill Murray di Broken Flowers (vincitore nel 2005 del Gran premio della giuria a Cannes)? Don Johnston è un attempato ex dongiovanni corroso da un malinconico mal di vivere. Ricevuto un biglietto in cui un'anonima compagna del passato gli comunica che è padre di un ragazzo di quasi diciannove anni, decide di andare a trovare in giro per gli Stati Uniti le donne di una vita allo scopo di scoprire chi è la madre di suo figlio. Ma esisterà poi veramente un figlio? Potrebbe magari trattarsi infatti di una messa in scena di qualche sua ex. Alla fine del proprio peregrinare i dubbi non si dischiareranno, e la macchina da presa che in chiusura gira intorno al suo volto (uno dei più audaci movimenti in tutta la filmografia di Jarmusch, generalmente sempre molto composto e sobrio nella regia) esprime efficacemente quel senso di irrisoluzione e spaesamento che segna in profondità tutte le vicende dei personaggi jarmuschiani. Costruendo un'ideale rima, ci sembra, con la conclusiva soggettiva di Allie Parker che si allontana da New York a bordo di una nave, direzione Parigi, in Permanent Vacation.
Trasferitosi a soli 17 anni nella Grande Mela, dove attualmente ancora vive e lavora, Jarmusch è un cineasta minimalista, coerente, pensoso nel senso nobile del termine (ha realizzato undici film in 29 anni). Certamente ha influenzato a livello tematico più di qualche regista della new wave statunitense degli anni Novanta (pensiamo in particolare a Wes Anderson o anche a Sofia Coppola) e, come ha scritto Umberto Mosca nel suo Castoro, può essere a ragione considerato“uno dei pochi autori americani per cui ha ancora senso spendere la parola «indipendente»”.
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