Marco Tullio Giordana, uno dei più importanti registi italiani in attività, continua il suo personale viaggio nella storia e nelle laceranti contraddizioni del nostro paese. Dopo la ribellione alla mafia di Peppino Impastato de I Cento Passi (2000), la mastodontica ed ambiziosa carrellata su quasi quarant’anni di vita italiana de La Meglio Gioventù (2003) e la quanto mai attuale riflessione sul fenomeno dell’immigrazione di Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005), in Sanguepazzo il cineasta milanese (anche sceneggiatore insieme ai defunti Enzo Ungari e Leone Colonna) affronta il fascismo e la controversa questione della “guerra civile” seguente l’armistizio dell’8 Settembre 1943. Lo fa però concentrandosi quasi esclusivamente sulle figure di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida – grandi divi degli anni Trenta protagonisti del cosiddetto “cinema dei telefoni bianchi” – e narrando la loro decadenza e progressiva caduta in un vortice di vizi, droghe e infrazioni morali.
È bene tenere in considerazione che, a detta dello stesso regista, il film è “un’opera di fantasia ispirata a vicende e figure reali”. Dunque non è da considerarsi affatto come una fedele rappresentazione della vita dei due celebri interpreti. Sembrerebbe che nella visione di Giordana i due personaggi principali (che hanno una evidente carica simbolica) in qualche modo rappresentino lo specchio ideale di quanto stava accadendo nell’Italia di quel periodo storico. Tale approccio originale e suggestivo agli anni fascisti è il principale motivo di attrazione di quest’opera profondamente cupa, che non ha paura di mostrare anche quelle che sono le zone d’ombra della guerra di Liberazione.
Sanguepazzo è una pellicola che urterà la sensibilità di alcuni, certamente ambiziosa e coraggiosa, forse un po’ ripetitiva in alcuni momenti legati al passato dei due attori. Ma nel complesso riuscita. Purtroppo l’interpretazione della Bellucci è a più riprese ampiamente insufficiente e per almeno la prima ora di proiezione la sua presenza spesso concorre in maniera decisiva a “tirare fuori” lo spettatore dal film, rompendo quel rapporto empatico che si instaura in particolare grazie alla efficacia della struttura narrativa (che è fondamentalmente circolare e fa un massiccio uso del flashback per raccontare la storia dei protagonisti e del loro rapporto) e alla eccellente prova di Luca Zingaretti, il quale probabilmente offre la miglior interpretazione della sua carriera.
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