L'inarrestabile scalata a Hollywood di Quentin Jerome Tarantino (nato a Knoxville, Tennessee, il 27 marzo 1963) inizia con il lavoro di commesso in una videoteca californiana di Manhattan Beach, il Video Archives. Il negozio (da molti anni non più in attività) era piuttosto famoso a Los Angeles, soprattutto tra gli addetti ai lavori, e non era infrequente che registi, produttori o uomini di cinema in generale passassero di lì, anche solo per una chiacchierata. È in questo modo che Tarantino comincia a farsi conoscere, facendo così girare le sue sceneggiature e il proprio nome nell'ambiente hollywoodiano. Dopo essere riuscito a vendere le sue prime sceneggiature alla fine degli anni Ottanta (da cui nasceranno nel 1993 Una vita al massimo di Tony Scott e nel 1995 Natural Born Killers di Oliver Stone), entra in contatto con l'emergente produttore Lawrence Bender. L'incontro è il preludio de Le Iene (1992) e il sodalizio tra i due amici ad oggi non si è ancora interrotto. Con Pulp Fiction (1994) inizia invece la storica collaborazione con la Miramax dei fratelli Weinstein. Il film, vincitore inaspettato del festival di Cannes nell'anno in cui a presiedere la giuria c'è Clint Eastwood, consacra definitivamente Tarantino facendolo divenire, con alle spalle due sole opere, un regista di culto mondiale. Ed è veramente sorprendente pensare a come le immagini in movimento plasmate da questo onnivoro e appassionato cineasta cinefilo siano entrate così rapidamente nell'immaginario cinematografico.
Fin da adolescente, Tarantino è cresciuto a forza di pane e celluloide. Come testimoniano gli amici di infanzia o il secondo compagno della madre, con il quale si consumava il rito dell'intero venerdì al cinema (spettacolo delle tre, delle sei, delle nove e, a volte, persino di mezzanotte!), il giovane Tarantino viveva nutrendosi e guardando film su film, sette giorni su sette. Il fatto di crescere, e di formarsi una notevole e trasversale cultura cinematografica, guardando migliaia di pellicole al cinema o a casa in videocassetta, è una delle caratteristiche principali che contraddistingue molti esponenti della new wave statunitense degli anni novanta. Se infatti la generazione dei cineasti impostisi negli anni settanta si era formata accademicamente nelle università di cinema (si pensi ai vari Coppola, Scorsese e Lucas), registi come ad esempio Tarantino, Paul Thomas Anderson, David Fincher e Spike Jonze, per quanto possano essere diverse le loro rispettive poetiche ed influenze, sono tutti accomunati dal non avere una formazione universitaria. Questo aspetto ci sembra importante per cogliere quell'evidente e peculiare gusto citazionista che emerge chiaramente nei film di alcuni di loro, e in particolar modo proprio in quelli di Tarantino. Un gusto citazionista che inevitabilmente è ludico e scanzonato, anche per certi versi ingenuo e fanciullesco, nella misura in cui mette prepotentemente in gioco quella passione cinefila che è poi l'autentica passione di una vita.
Ciò che colpisce prima di ogni altra cosa nei lavori di Quentin Tarantino, è la capacità di rielaborare con un innegabile e riconoscibilissimo tocco personale codici, stili, luoghi comuni di un certo cinema che ama e con cui è cresciuto, per poi magari ribaltarli parodicamente. Il tarantino touch, per così dire, si basa fondamentalmente sulla riproposizione fortemente personale del cinema statunitense di serie B e serie Z (film di kung fu, film d'explotation ad alto tasso di sesso e violenza), con citazioni ed accenni più o meno evidenti anche al grande cinema d'autore (Godard, Leone e Ford tra gli altri). Ma quali sono, andando al concreto, i fattori essenziali che permettono di riconoscere immediatamente la mano di Tarantino? Ci sembra che siano essenzilamente due.
Lo stile di scrittura
Il ricorso a dialoghi brillanti, frizzanti, scritti in modo finissimo e il più delle volte legati a doppio filo alla cultura popolare americana, è indubbiamente uno dei cavalli di battaglia del cinema tarantiniano. Non è possibile evitare di menzionare le esilaranti dissertazioni di Pulp Fiction, con protagonisti John Travolta e Samuel L. Jackson, sul senso del fare un massaggio ai piedi ad una donna; oppure la discussione tra i gangster de Le Iene, che in modo significativo fa da incipit al film, sul significato latente della celebre hit di Madonna Like A Virgin. O ancora, nell'improprio tentativo di prendere solo tre esempi all'interno di una filmografia che è colma di momenti all'altezza di quelli citati, il formidabile monologo di David Carradine sulle diverse filosofie alla base dei fumetti di Superman e Spiderman.
Tutto il cinema di Tarantino deve indubitabilmente molta della sua forza all'arguzia dei dialoghi di cui è composto e di cui, verrebbe da dire non a sproposito, si alimenta. È vero che in Kill Bill vol.1 (2003) è nettamente l'azione a farla da padrona, ma non è certo un mistero che secondo le intenzioni del regista la pellicola sarebbe dovuta uscire in una versione unica di quattro ore, comprensiva anche del molto più parlato Kill Bill vol.2 (2004).
A ben pensarci, il cineasta statunitense è innanzitutto un grandissimo e raffinato sceneggiatore, in grado come pochi altri nel panorama mondiale contemporaneo di catturare lo spettatore, fino quasi a sedurlo, mediante la propria peculiare abilità di plasmare scambi dialogici sempre intriganti. Riuscendo al contempo a raggiungere vette di comicità notevoli, spesso e volentieri tendenti al no sense. Come scrive in modo perspicace Christian Viviani sul Dizionario dei registi del cinema mondiale (Einaudi): “Osceno, vivace, immaginifico, logorroico, il dialogo di Tarantino si distacca ben presto dalla volgarità per raggiungere un ritmo sincopato quasi musicale, allontanandolo dal realismo pur facendogli mantenere naturalezza e improvvisazione”. Per non parlare della capacità, particolarmente evidente nei primi due lavori della sua filmografia (Le Iene e Pulp Fiction), di costruire perfette stutture narrative “ad incastro” in cui dominano frammentazione temporale ed ellissi, e dove addirittura in determinate occasioni si arriva a presentare delle stesse vicende diegetiche da vari punti di vista. Si pensi, a tal proposito, alla sequenza dello scambio delle buste nel centro commerciale di Jackie Brown (1997).
L'utilizzo della musica
La musica, utilizzata spesso e volentieri in aperto contrasto con le immagini, riveste in diverse occasioni un'importanza non secondaria anche a livello narativo. Se questo tipo di concezione contrappuntistica del rapporto tra colonna sonora e immagini evidentemente non nasce con il regista di Knoxville, l'utilizzo della rassicurante e gaia musica pop americana degli anni sessanta e settanta ad accompagnare sequenze di violenza, più o meno esplicita, è stata una vera e propria novità per gli anni novanta. Così come non si era abituati, più in generale, ad una messa in scena della violenza spudoratamente leggera, ironico-parodica, farsesca, a tratti evidentemente rivelatrice di un complessivo sfondo amaro nel quale si muovono costantemente tutti i personaggi (vedi soprattutto Le Iene, Pulp Fiction e Jackie Brown). Più esplicitamente ludica e meno problematica, da vero b-movie scanzonato, apparrà la caratterizzazione della violenza messa in scena nei successivi Kill Bill vol. 1 e 2, ma soprattutto in Grindhouse – A prova di morte (2007).
Per questi due elementi principalmente, il personalissimo e inconfondibile stile di scrittura e il particolare utilizzo della musica, l'opera del cineasta nordamericano è stata certamente una delle più influenti nell'ambito cinematografico internazionale degli ultimi quindici anni. In molti hanno provato a riproporre il suo stile ma immancabilmente con scarso successo, non potendo fare affidamento su quella straordinaria padronanza del mezzo filmico propria dell'uomo di cinema Tarantino (si pensi, fra i tanti, all'inglese Guy Ritchie di Lock&Stock, Snatch e RocknRolla). Proprio a proposito del Tarantino uomo di cinema, come anch'egli spesso si definisce, in un articolo del New York Times dello scorso 18 maggio Kristin Hohenadel riporta una breve dichiarazione del regista del Tennessee: “You've got to make a movie about something, and I'm a film guy, so I think in terms of genres”.
L'autore di Pulp Fiction, dunque, afferma esplicitamente di pensare sempre prima di tutto (forse esclusivamente?) in termini di genere, giocando così sulla contaminazione e facendo costantemente nei propri film molteplici riferimenti alla storia del cinema, in particolare quello “sommerso” visto nelle salette grindhouse (i cinema di quart'ordine che proiettavano, soprattutto negli anni settanta, film a budget praticamente inesistente). Questa dichiarazione può rivelarsi un utile spunto per riflettere sull'effettivo spessore contenutistico delle pellicole tarantiniane. Per chi scrive, coloro che cercano nei film di Tarantino qualcosa che vada oltre la bellezza della forma e la potente rielaborazione personale di un certo cinema, probabilmente non hanno capito bene con che regista hanno a che fare. Eppure, ogni suo film è una vera e propria gioia per gli occhi, essendo Tarantino, oltre quanto già detto, anche un ottimo cineasta in grado di creare immagini sempre suggestive e virtuosismi di raro fascino. Notevole è poi la sua capacità di dinamizzare lo spazio scenico: si pensi alle ampie parti de Le Iene ambientate nello squallido deposito dove i criminali devono ritrovarsi dopo il colpo, o a Grindhouse – A prova di morte, in cui dominano in entrambi gli espisodi lunghe sequenze di dialoghi in spazi rigorosamente chiusi e ristretti (interni di macchine, di bar o di ristoranti ordinari).
All'interno di molti dei discorsi fatti sin qui rientra Inglourious Basterds (2009, il doppio refuso del titolo è misteriosamente voluto dal regista). A partire proprio da quello che abbiamo riconosciuto come il cuore del cinema tarantiniano: il complesso tessuto di omaggi citazionistici concernenti il cinema con cui è cresciuto. Nonostante quanto detto dalla stampa nei mesi di lavorazione, il film non è un remake di Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari, ma ne è solo liberamente e parzialmente ispirato. Presentata con buon successo di critica all'ultimo festival di Cannes, la pellicola mette in scena le improbabili gesta di una banda di soldati ebrei americani che, al fine di uccidere tutti i prinicipali gerarchi nazisti, sbarcano nella Francia occupata da Hitler.
Pieno zeppo di citazioni (Leone e gli spaghetti-western, ma anche Lubitsch, Ford e il western classico d'autore in generale), Inglourious Basterds terminerà – lo scriviamo dal momento che lo hanno già ampiamente riportato tutti i quotidiani e i telegiornali nazionali – con lo sterminio di molte delle principali personalità del Terzo Reich (Hitler, Himmler, Goering, Goebbels). E questo avverrà all'interno di una sala cinematografica in cui si sta proiettando un film che rappresenta l'apoteosi della propaganda nazista (girato nella realtà da Eli Roth). Tarantino dunque, da ingenuo e appassionato cinefilo doc, arriva con la sua ultima fatica a confrontarsi con il potere del cinema, capace persino di sovvertire la lugubre Storia attraverso la propria dirompente forza immaginifica. Che è per definizione illusoria, giocandosi interamente ed inevitabilmente sul piano della finzione, soprattutto se messa apertamente a confronto con la granitica e irremovibile materialità delle cose.
Articolo pubblicato nel numero 16 di Cinem'Art (Luglio/Agosto 2009)