sabato 25 settembre 2010

George Romero's Survival of the Dead

Dopo quanto accaduto con il penultimo episodio della saga, di certo non c’è da essere particolarmente ottimisti. Nel nostro paese Diary of the Dead (tradotto con il titolo Le cronache dei morti viventi) è uscito nell'ottobre del 2009 in un’unica sala romana del Nuovo Cinema Aquila con ben due anni di ritardo rispetto all'anno di produzione della pellicola. Una tale “distribuzione”, se ci si passa questo termine, può avere un senso solo se pensata come presentazione (nella capitale fu fatta un’anteprima stampa) in vista dell’uscita in dvd. Nonostante abbia partecipato, con un discreto successo di pubblico e critica, alle edizioni dello scorso anno dei festival di Venezia e Toronto, difficilmente l’ultimo Survival of the Dead (2009) potrà contare su un trattamento diverso rispetto a quello riservato al suo predecessore. Persino in patria, negli Stati Uniti, è stato distribuito solo lo scorso 28 maggio in appena 20 sale, dopo essere stato già disponibile dal mese precedente attraverso il circuito del video on demand. Da noi probabilmente sarà in futuro disponibile solo in dvd, oppure, nella migliore delle ipotesi, sarà distribuito in una manciata di cinema. Ed è davvero un peccato, anche considerato il livello degli horror che invadono le nostre sale nei mesi estivi e in particolare tra giugno e luglio, che sia in pratica divenuto impossibile vedere uno dei film di George Romero al cinema.
Il settantenne cineasta newyorchese, con questo suo interessante Survival of the Dead, porta avanti l’ormai strutturato discorso sugli zombi con indubbie efficacia e solidità. Iniziata con La notte dei morti viventi nel 1968, sviluppatasi con Zombie (1978), Il giorno degli zombi (1985), La terra dei morti viventi (2005), Diary of the Dead (2007) e conclusasi (per ora) con quest’ultimo Survival of the Dead, la saga romeriana si presenta come una delle più importanti nella storia del cinema statunitense. Certamente tra le più coerenti per quanto concerne lo statuto poetico, socio-antropologico e simbolico-metaforico. Ogni episodio è essenziale e si differenzia per la proposizione di determinati temi e – esclusi il meta-cinematografico e sottovalutato Diary of the Dead e proprio Survival of the Dead, che tra l’altro al suo interno propone un inaspettato punto di contatto con il precedente episodio – per l’approfondimento della natura degli zombi, cadaveri che misteriosamente riprendono a vivere.
Allo spettatore non è dato sapere con certezza quale sia effettivamente la causa del ritorno alla vita dei morti: nel primo capitolo, emerge l’ipotesi secondo la quale delle radiazioni provenienti da una sonda spaziale di ritorno da Venere avrebbero riattivato il cervello delle persone recentemente decedute; nel secondo episodio (ambientato tre settimane dopo il primo), si diffonde la notizia di un’infezione virale dalla provenienza sconosciuta; il terzo, il quarto e il quinto episodio, così come Survival of the Dead, non propongono più alcun tentativo di spiegazione. La scienza non è in grado di dare risposte certe e gli uomini, seguendo alla lettera la celebre espressione hobbesiana dell’homo homini lupus, invece di aiutarsi vicendevolmente, danno il più delle volte prova della loro innata tendenza allo sfrenato egoismo, all’intolleranza e alla totale mancanza di lucida razionalità (elemento che più di ogni altro dovrebbe distinguere l’uomo dalle bestie). Persino in situazioni di eccezionale emergenza, gli esseri umani non sono in grado di solidarizzare e di formare un fronte comune ai fini della sopravvivenza della specie: è da questo punto focale che Romero irradia quel radicale pessimismo e quella totale sfiducia nei confronti dell’umanità che, piuttosto esplicitamente, sottende tutta la saga dei morti viventi.

Survival of the Dead, come si accennava all’inizio, si colloca perfettamente all’interno di questo agghiacciante universo che il regista statunitense ha iniziato a delineare nel lontano 1968. La trama, come al solito, non è che un canovaccio studiato meticolosamente per far risaltare quelle allegorie sociologiche, antropologiche e politiche che Romero sa immettere così sapientemente nel flusso narrativo. Da sei giorni i morti hanno cominciato a riprendere vita. Questa volta il principale luogo dell’azione è Plum, una piccola e incantevole isola nella quale, a mano a mano che le vicende narrative si sviluppano, la bellezza della natura risulterà sempre più in netto contrasto con la brutalità dei comportamenti degli uomini che ne fanno parte. Plum è da sempre abitata da due grandi famiglie rivali, gli O’Flynn e i Muldoon. I due capo-famiglia attuali, Patrick O’Flynn e Seamus Muldoon, si odiano fin da quando erano piccoli e sono in profondo disaccordo su come affrontare l’emergenza-morti viventi. Il primo è deciso a sparare in testa a chiunque muoia per evitare ogni pericolo, il secondo invece, spinto dalle proprie ottuse convinzioni religiose, si oppone a una tale drastica soluzione, proponendo di legare tutti gli zombi in attesa che si trovi loro una cura o che si riesca ad educarli a non nutrirsi di carne umana. Nel frattempo un gruppo di quattro militari, giunti nell’isola insieme a un ragazzo nella speranza di trovare in Plum un posto più sicuro rispetto alla terraferma, si schierano con O’Flynn. Il risultato sarà una guerra fratricida tra i pochi uomini rimasti vivi, mentre gli zombi svolgono un ruolo di secondo piano, stanno sullo sfondo quasi fossero dei semplici spettatori esterni di un macabro ed insensato spettacolo tutto umano.
Sul piano tematico, la grande novità e la forza di Survival of the Dead stanno nel fatto che per la prima volta ci si concentra molto sul tema della religione (non sembra azzardato leggere nell’opera una riflessione sull’eutanasia o, più in generale, sulla concezione della vita da parte della Chiesa cattolica e protestante) e su come essa possa dividere e portare gli esseri umani ad uno scontro feroce, senza esclusione di colpi. A differenza dei suoi dead movies precedenti, questa volta Romero punta decisamente sul registro comico-ironico. Tanto che probabilmente i suoi fan, quando avranno modo di vedere Survival of the Dead, all’inizio storceranno un po’ il naso. Eppure non si può fare a meno di notare che, sebbene in alcuni momenti il registro (auto)ironico possa forse apparire un po’ eccessivo o fuori contesto, nell’ambito generale dell’opera non stona affatto, offrendo al film un’inedita aria più distesa e giocosa che alla fine si rivela vincente. Chissà che Romero, a tal proposito, non abbia voluto consapevolmente confrontarsi, ricorrendo a inserti scopertamente grotteschi e comici, con la nuova tendenza parodistica che ha investito i film sui morti viventi a partire dal divertente L’alba dei morti dementi del 2004 (l’ottimo successo negli States del recente Zombieland, in uscita in Italia il 7 maggio, sembra testimoniare che questo filone è destinato a manifestarsi nuovamente nel prossimo futuro).

Che gli zombi continuassero istintivamente a compiere le azioni cui erano abituati da vivi, lo avevamo capito a partire dalle indimenticabili scene del centro commerciale di Zombie, ma la trovata finale con cui si sfrutta questo dato già assodato è potente e geniale (come si sarebbe potuto chiudere meglio questo film?). In alcuni momenti il comico e il sarcasmo funzionano a meraviglia, come ad esempio nella scena in cui Seamus Muldoon spiega nella sua sala da pranzo il motivo per il quale si ostina a non uccidere i morti viventi. Nonostante Survival of the Dead non sia all’altezza dei primi tre capitoli e de La terra dei morti viventi, è comunque un film dalla solida struttura e molto interessante per i temi che propone. Oltre alla già citata immagine finale, almeno due o tre sequenze sono davvero intense e dal forte impatto metaforico. Si potrebbe scrivere che quei pochi straordinari momenti di un film comunque complessivamente riuscito valgono da soli il prezzo del biglietto, se solo ci fosse all’orizzonte una distribuzione.

Articolo pubblicato nel numero 21 di Cinem'Art (Maggio/Giugno 2010)

domenica 19 settembre 2010

"Roger & Me" di Michael Moore: l'altra faccia del Sogno Americano


Il senso di Roger & Me, il primo sorprendente lavoro del 1989 di Michael Moore (affermatosi poi a livello internazionale una quindicina di anni più tardi con l'accoppiata Bowling A Columbine-Farenheit 9/11), è racchiuso nell’ultima inquadratura del documentario: uno zoom all'indietro contestualizza una sventolante bandiera americana in cima ad un edificio circondato da strutture in via di demolizione.
A Flint (Michigan), città natale del regista statunitense, la General Motors licenzia nel 1986 trentamila operai per trasferirsi in Messico e risparmiare in tal modo sulla manodopera. Moore indaga la mutata realtà sociale e cerca vanamente, più volte, di avere un colloquio con il presidente dell'azienda automobilistica, Roger Smith, per invitarlo a Flint a vedere di persona le tremende conseguenze del suo atto. Roger & Me ci mostra una città-fantasma in cui, a seguito dell’imponente licenziamento, la maggior parte degli abitanti si trovano improvvisamente senza lavoro. I sussidi governativi mensili sono assai esigui e per sopravvivere ci si inventa di tutto: in un tessuto sociale totalmente sfaldato, c’è chi dona il sangue più volte la settimana e chi vende conigli vivi da compagnia o macellati pronti per essere mangiati.

Va da sé che in questo tragico contesto crescano esponenzialmente criminalità e omicidi. Flint arriva persino considerata dalla famosa rivista americana Money la peggiore città degli Stati Uniti d’America. Il tutto nell’assoluta indifferenza delle autorità locali, le quali si limitano ad organizzare incontri con personaggi famosi del piccolo schermo, divi locali e predicatori allo scopo di tenere alto il morale dei cittadini e convincerli della possibilità di ricostruirsi una vita. Con simili “provvedimenti”, la situazione naturalmente non accenna a cambiare. Dopo aver costruito un nuovo carcere (l’unico esistente è ormai sovraffollato), allora le autorità decidono di tentare il tutto per tutto: trasformare la città in una località turistica di richiamo. Quello che si suol dire un deus ex machina. Vengono così costruiti un lussuosissimo albergo e un grande centro commerciale, destinati ovviamente a rimanere vuoti e a fallire in pochi mesi, dal momento che difficilmente un luogo spettrale in cui regnano sovrane povertà, disoccupazione e disperazione può divenire per magia una ambita meta turistica.

Dal documentario di Moore emerge una sorta di atmosfera post-apocalittica che non sfigurerebbe affatto in un film catastrofico e che ci mostra l’altra faccia dell’America di Reagan. Un'America in cui il tradizionale mito della “seconda possibilità” è destinato miseramente a non trovare spazio e dove, come narra la voce fuori campo di Michael Moore in conclusione, alla fine del ventesimo secolo “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. Di fortissimo impatto la sequenza in cui con un insistente montaggio parallelo vengono mostrati gli sfratti che, come ogni giorno precedente, il vice-sceriffo sta compiendo anche alla vigilia di natale. Proprio mentre Roger Smith tiene il tradizionale discorso a un gruppo di suoi dipendenti, in cui elogia la bellezza e la magia del periodo natalizio e il “suo spirito totalizzante”, ricordando che “la dignità e i valori umani sono il nostro patrimonio comune”. Pur essendo meno conosciuto, Roger & Me è da considerarsi a buon diritto al livello di Bowling A Columbine, Farenheit 9/11, Sicko e dell'ultimo Capitalism: A Love Story.

martedì 14 settembre 2010

"Nel paese delle creature selvagge" di Spike Jonze


Esprimere con il linguaggio filmico il punto di vista di un bambino non è cosa semplice e necessita la messa in campo di una sensibilità particolarissima. Spike Jonze riesce nell’impresa di descrivere il mondo dell’infanzia, fatto di puri e a volte ingenui entusiasmi, incondizionati stupori, profonde inquietudini e straordinaria creatività, attraverso gli occhi del piccolo Max (Max Records), bimbo vivace e dagli improvvisi scatti d’ira costretto anzitempo a confrontarsi con la solitudine. Il padre non vive più con la sua famiglia, la madre (una Catherine Keener che sfrutta al meglio le poche inquadrature a disposizione) lavora tutto il giorno per mantenere lui e la sorella adolescente, mentre quest’ultima non gli riserva le attenzioni che vorrebbe.
Tutto questo si intuisce nei primi quindici intensi minuti, nei quali il regista nordamericano impostosi all’attenzione della critica con l’eccentrico Essere John Malkovich (1999), mostra con brio, disincanto e indiscutibile talento visivo la vita familiare del giovane protagonista. Quando una sera un uomo si presenta per cena, Max si sente tradito. Si ribella, morde la madre su una spalla e scappa di casa per poi raggiungere un boschetto. Qui si addormenta, o forse sogna ad occhi aperti: inizia a fantasticare di un mondo lontano popolato da sette creature selvagge scontente e deluse perché non riescono a restare unite come fossero una grande famiglia. Il bambino si propone come loro re, promettendogli di risolvere le controversie e di scacciare per sempre il senso di solitudine. Le cose però si riveleranno più complicate del previsto e durante il suo regno Max comprenderà a fondo l’importanza della famiglia, elaborando in una sorta di processo di autoanalisi i propri errori ed eccessi (le creature, infatti, non sono altro che proiezioni, espressioni del proprio sé e delle sue ansie).
Dopo le dissertazioni cerebrali de Il ladro di orchidee (2002), Spike Jonze ritrova smalto ispirandosi al celebre libro per bambini di Maurice Sendak, Where the Wild Things Are. Nonostante le oggettive difficoltà connesse all’adattamento di un breve testo illustrato che si affida alla capacità descrittiva delle immagini più che a quella delle parole, il quarantenne cineasta (coadiuvato dal co-sceneggiatore David Eggars) regala allo spettatore l’insperata e preziosa possibilità di entrare nuovamente in contatto con momenti e sensazioni pulsanti della propria infanzia. Come nel migliore cinema statunitense contemporaneo, la colonna sonora ha un ruolo fondamentale nel sostenere la narrazione, dialogando magistralmente con il mondo diegetico e costituendosi così come forte veicolo espressivo. Karen O, la leader del gruppo indie-rock newyorchese Yeah Yeah Yeahs, ha scritto e interpretato una serie di canzoni che accompagnano mirabilmente il flusso delle emozioni proposto dal film e gli stati d’animo del piccolo protagonista irrequieto e sognatore.

Se l’impressione è che l’estesa parte centrale dedicata al mondo “virtuale” delle creature selvagge avrebbe potuto esporre rimandi ancor più significativi alla vita di Max, Nel paese delle creature selvagge è in ogni caso un film da non perdere per la sensibilità e lo sguardo anticonvenzionale con i quali riesce a descrivere, attraverso una commistione davvero notevole di immagini, suoni e parole, il complicato percorso di crescita di un bambino come tanti altri. Il breve finale che vede protagonisti Max e la madre è, nella sua essenzialità, uno dei più intensi e drammaturgicamente riusciti degli ultimi anni.

domenica 5 settembre 2010

Venezia 67: "Il cigno nero" di Darren Aronofsky e "Somewhere" di Sofia Coppola


Era da anni che il film d’apertura del festival di Venezia non risultava così convincente. Dopo tre giorni di proiezioni, il Cigno nero di Darren Aronofsky è ancora, di gran lunga, l’opera più significativa vista in concorso. La bella Nina (Natalie Portman) è una ballerina del New York City Ballet ormai giunta all’età limite per poter sfondare. Le giornate della danzatrice, assai talentuosa ma imprigionata nel rigore della tecnica, passano monotone e senza sussulti. La solitudine regna sovrana nella sua vita. Al di fuori dell’ambiguo rapporto con la madre, ex ballerina che racconta di aver rinunciato ad un futuro da star una volta rimasta incinta (ma sarà poi vero?), Nina non ha nessuno. Con le colleghe non lega e l'assidua ricerca del successo la porta a convivere con uno stress quotidiano che ben presto degenera in ossessione. Il regista newyorchese Leone d’Oro nel 2008 per The Wrestler narra con forza e un’evidente padronanza del mezzo l’universo emotivo-psicologico della protagonista, trascinando di peso lo spettatore negli oscuri meandri della sua mente.

Facendo ricorso ad una fotografia in digitale costantemente tendente al nero, Aronofsky tratteggia con maestria un thriller psicologico allucinato e disturbante, in grado di coinvolgere chi guarda in modo davvero sorprendente. Il tutto riallacciandosi ad uno dei grandi topoi della sua sin qui ristretta filmografia: l’analisi dell’ossessione umana (se Natalie vuole assolutamente diventare la prima ballerina dello spettacolo "Il lago dei cigni", il Maximilian di Pigreco tenta in tutti i modi di trovare la formula matematica che gli permetta di anticipare gli andamenti della borsa di Wall Street, così come il Tom di The Fountain cerca disperatamente di trovare una cura per la moglie malata di cancro), spesso connessa a doppio filo al beffardo rovesciamento di quel Sogno Americano che per Aronofsky sovente si configura come un insuperabile ostacolo culturale per la corretta formazione dell’individuo.
Il finale de Il cigno nero è potente e forse rappresenta l’ideale sigillo ad un personalissimo percorso cinematografico suggestivo e di grande impatto, fondato sulla sistematica decostruzione dell’American Dream e, di riflesso, delle possibilità strutturanti dell’happy-end. Ora però al cineasta di Brooklyn, dopo aver scandagliato questi temi nei modi più svariati, chiediamo un ulteriore passo in avanti: perché non cambiare definitivamente rotta e dirigersi verso altri lidi? Dal suo sesto film, sul piano tematico, ci aspettiamo una svolta.

Più di Aronofsky, il quale comunque ad ogni sua opera aggiunge alcuni elementi di novità (si pensi alla suggestiva storia d'amore trans-secolare di The Fountain o al rapporto padre-figlia tratteggiato in The Wrestler), avrebbe bisogno di sperimentare nuove direzioni artistiche Sofia Coppola. Il suo Somewhere, presentato in Laguna due giorni dopo Black Swan, è un ottimo film minimalista, una piccola affascinante storia della malinconica vita della giovane star cinematografica Johnny Marco (uno Stephen Dorff in pieno stile Bill Murray), ormai assuefatta ai privilegi della fama e fondamentalmente oppressa da una scarsa autostima. Alcuni inaspettati giorni trascorsi con la figlia undicenne (interpretata ottimamente da Elle Fanning), con la quale non ha quasi alcun tipo di rapporto, forse rappresenteranno la svolta che cercava.
Solitudine, malinconia, attitudine introspettiva: gli ingredienti del cinema della Coppola, per quanto sapientemente intrecciati e accompagnati da una impeccabile scrittura alla costante ricerca dell’essenzialità e da un regia discreta sempre funzionale ai risvolti narrativi, sono sempre gli stessi dei suoi tre film precedenti (Il giardino delle vergini suicide, Lost in translation e Maria Antonietta). Certo, è vero che abbiamo a che fare con una cineasta neanche quarantenne e con alle spalle sole quattro opere, ma da un talento come lei è lecito aspettarsi un cambio di registro.

Esattamente ciò che servirebbe ad un altro grande talento nordamericano sorto negli anni novanta del Novecento: Wes Anderson. L’ultimo Fantastic Mr. Fox sul piano dei contenuti è forse sin troppo aderente ai suoi precedenti lavori, discostandosene sul piano stilistico nella misura in cui si tratta di un cartone animato realizzato in gran parte in stop-motion. Per questi autori la sfida, dunque, è la medesima: confrontarsi, sin dalla prossima opera, con qualcosa di radicalmente diverso. Tanto per essere espliciti, ciò che è riuscito a fare mirabilmente il loro coetaneo Paul Thomas Anderson dopo Magnolia, con Ubriaco d’amore e Il petroliere. Aspettiamo fiduciosi, le potenzialità ci sono tutte.