Dopo quanto accaduto con il penultimo episodio della saga, di certo non c’è da essere particolarmente ottimisti. Nel nostro paese Diary of the Dead (tradotto con il titolo Le cronache dei morti viventi) è uscito nell'ottobre del 2009 in un’unica sala romana del Nuovo Cinema Aquila con ben due anni di ritardo rispetto all'anno di produzione della pellicola. Una tale “distribuzione”, se ci si passa questo termine, può avere un senso solo se pensata come presentazione (nella capitale fu fatta un’anteprima stampa) in vista dell’uscita in dvd. Nonostante abbia partecipato, con un discreto successo di pubblico e critica, alle edizioni dello scorso anno dei festival di Venezia e Toronto, difficilmente l’ultimo Survival of the Dead (2009) potrà contare su un trattamento diverso rispetto a quello riservato al suo predecessore. Persino in patria, negli Stati Uniti, è stato distribuito solo lo scorso 28 maggio in appena 20 sale, dopo essere stato già disponibile dal mese precedente attraverso il circuito del video on demand. Da noi probabilmente sarà in futuro disponibile solo in dvd, oppure, nella migliore delle ipotesi, sarà distribuito in una manciata di cinema. Ed è davvero un peccato, anche considerato il livello degli horror che invadono le nostre sale nei mesi estivi e in particolare tra giugno e luglio, che sia in pratica divenuto impossibile vedere uno dei film di George Romero al cinema.
Il settantenne cineasta newyorchese, con questo suo interessante Survival of the Dead, porta avanti l’ormai strutturato discorso sugli zombi con indubbie efficacia e solidità. Iniziata con La notte dei morti viventi nel 1968, sviluppatasi con Zombie (1978), Il giorno degli zombi (1985), La terra dei morti viventi (2005), Diary of the Dead (2007) e conclusasi (per ora) con quest’ultimo Survival of the Dead, la saga romeriana si presenta come una delle più importanti nella storia del cinema statunitense. Certamente tra le più coerenti per quanto concerne lo statuto poetico, socio-antropologico e simbolico-metaforico. Ogni episodio è essenziale e si differenzia per la proposizione di determinati temi e – esclusi il meta-cinematografico e sottovalutato Diary of the Dead e proprio Survival of the Dead, che tra l’altro al suo interno propone un inaspettato punto di contatto con il precedente episodio – per l’approfondimento della natura degli zombi, cadaveri che misteriosamente riprendono a vivere.
Allo spettatore non è dato sapere con certezza quale sia effettivamente la causa del ritorno alla vita dei morti: nel primo capitolo, emerge l’ipotesi secondo la quale delle radiazioni provenienti da una sonda spaziale di ritorno da Venere avrebbero riattivato il cervello delle persone recentemente decedute; nel secondo episodio (ambientato tre settimane dopo il primo), si diffonde la notizia di un’infezione virale dalla provenienza sconosciuta; il terzo, il quarto e il quinto episodio, così come Survival of the Dead, non propongono più alcun tentativo di spiegazione. La scienza non è in grado di dare risposte certe e gli uomini, seguendo alla lettera la celebre espressione hobbesiana dell’homo homini lupus, invece di aiutarsi vicendevolmente, danno il più delle volte prova della loro innata tendenza allo sfrenato egoismo, all’intolleranza e alla totale mancanza di lucida razionalità (elemento che più di ogni altro dovrebbe distinguere l’uomo dalle bestie). Persino in situazioni di eccezionale emergenza, gli esseri umani non sono in grado di solidarizzare e di formare un fronte comune ai fini della sopravvivenza della specie: è da questo punto focale che Romero irradia quel radicale pessimismo e quella totale sfiducia nei confronti dell’umanità che, piuttosto esplicitamente, sottende tutta la saga dei morti viventi.
Survival of the Dead, come si accennava all’inizio, si colloca perfettamente all’interno di questo agghiacciante universo che il regista statunitense ha iniziato a delineare nel lontano 1968. La trama, come al solito, non è che un canovaccio studiato meticolosamente per far risaltare quelle allegorie sociologiche, antropologiche e politiche che Romero sa immettere così sapientemente nel flusso narrativo. Da sei giorni i morti hanno cominciato a riprendere vita. Questa volta il principale luogo dell’azione è Plum, una piccola e incantevole isola nella quale, a mano a mano che le vicende narrative si sviluppano, la bellezza della natura risulterà sempre più in netto contrasto con la brutalità dei comportamenti degli uomini che ne fanno parte. Plum è da sempre abitata da due grandi famiglie rivali, gli O’Flynn e i Muldoon. I due capo-famiglia attuali, Patrick O’Flynn e Seamus Muldoon, si odiano fin da quando erano piccoli e sono in profondo disaccordo su come affrontare l’emergenza-morti viventi. Il primo è deciso a sparare in testa a chiunque muoia per evitare ogni pericolo, il secondo invece, spinto dalle proprie ottuse convinzioni religiose, si oppone a una tale drastica soluzione, proponendo di legare tutti gli zombi in attesa che si trovi loro una cura o che si riesca ad educarli a non nutrirsi di carne umana. Nel frattempo un gruppo di quattro militari, giunti nell’isola insieme a un ragazzo nella speranza di trovare in Plum un posto più sicuro rispetto alla terraferma, si schierano con O’Flynn. Il risultato sarà una guerra fratricida tra i pochi uomini rimasti vivi, mentre gli zombi svolgono un ruolo di secondo piano, stanno sullo sfondo quasi fossero dei semplici spettatori esterni di un macabro ed insensato spettacolo tutto umano.
Sul piano tematico, la grande novità e la forza di Survival of the Dead stanno nel fatto che per la prima volta ci si concentra molto sul tema della religione (non sembra azzardato leggere nell’opera una riflessione sull’eutanasia o, più in generale, sulla concezione della vita da parte della Chiesa cattolica e protestante) e su come essa possa dividere e portare gli esseri umani ad uno scontro feroce, senza esclusione di colpi. A differenza dei suoi dead movies precedenti, questa volta Romero punta decisamente sul registro comico-ironico. Tanto che probabilmente i suoi fan, quando avranno modo di vedere Survival of the Dead, all’inizio storceranno un po’ il naso. Eppure non si può fare a meno di notare che, sebbene in alcuni momenti il registro (auto)ironico possa forse apparire un po’ eccessivo o fuori contesto, nell’ambito generale dell’opera non stona affatto, offrendo al film un’inedita aria più distesa e giocosa che alla fine si rivela vincente. Chissà che Romero, a tal proposito, non abbia voluto consapevolmente confrontarsi, ricorrendo a inserti scopertamente grotteschi e comici, con la nuova tendenza parodistica che ha investito i film sui morti viventi a partire dal divertente L’alba dei morti dementi del 2004 (l’ottimo successo negli States del recente Zombieland, in uscita in Italia il 7 maggio, sembra testimoniare che questo filone è destinato a manifestarsi nuovamente nel prossimo futuro).
Che gli zombi continuassero istintivamente a compiere le azioni cui erano abituati da vivi, lo avevamo capito a partire dalle indimenticabili scene del centro commerciale di Zombie, ma la trovata finale con cui si sfrutta questo dato già assodato è potente e geniale (come si sarebbe potuto chiudere meglio questo film?). In alcuni momenti il comico e il sarcasmo funzionano a meraviglia, come ad esempio nella scena in cui Seamus Muldoon spiega nella sua sala da pranzo il motivo per il quale si ostina a non uccidere i morti viventi. Nonostante Survival of the Dead non sia all’altezza dei primi tre capitoli e de La terra dei morti viventi, è comunque un film dalla solida struttura e molto interessante per i temi che propone. Oltre alla già citata immagine finale, almeno due o tre sequenze sono davvero intense e dal forte impatto metaforico. Si potrebbe scrivere che quei pochi straordinari momenti di un film comunque complessivamente riuscito valgono da soli il prezzo del biglietto, se solo ci fosse all’orizzonte una distribuzione.
Articolo pubblicato nel numero 21 di Cinem'Art (Maggio/Giugno 2010)