Il 17 dicembre 2008, nell'Aula Magna della facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Roma Tre, si tenne un interessante incontro con Roberto Saviano all'interno del “Festival delle Culture. Il Sud d'Italia, il Sud del mondo, tra legalità e razzismo”, organizzato dai giovani studenti dell'Onda studentesca della facoltà. L’incontro fu un’occasione preziosa per riflettere sull'immagine che i diversi mezzi di comunicazione offrono del mondo mafioso. E su come questa cozzi profondamente con la realtà. Scrissi un articolo a riguardo per il numero di febbraio 2009 di Cinem’Art, che vi ripropongo in versione pressoché integrale in questa sede per omaggiare lo scrittore campano e l’importante trasmissione che sta andando in onda in queste settimane, Vieni via con me.
L'intervento.
Non si può certo nascondere che il clou, il surplus dell'intero "Festival delle Culture" sia stato rappresentato dalla presenza di Saviano, il quale, visibilmente emozionato, ha accettato con grande gioia l'invito degli studenti universitari, sottolineando appena presa la parola come fosse felice di trovarsi lì e di poter essere di fronte, una volta tanto, a così tanti giovani. Non bisogna dimenticare infatti che Saviano vive ormai sotto scorta da due anni, trasferendosi periodicamente da una caserma all'altra. Le uniche facce che vede con continuità, le sole persone con cui può parlare, confrontarsi e confidarsi quotidianamente sono i sette carabinieri che gli fanno da scorta.
Il lungo intervento dello scrittore – durato in totale quasi un'ora e dieci minuti – si può suddividere in quattro tronconi: una breve parte iniziale nella quale ha introdotto il mondo delle mafie, facendo riferimento ad una serie di dati particolarmente significativi; un lungo racconto di alcuni dei tanti morti provocati dalla camorra (quasi sempre ragazzi che non arrivano a 18 anni), corroborato da una serie di tragiche fotografie scattate da fotogiornalisti e cronisti; una parte più snella in cui ha mostrato come i giornali locali rappresentino, in modo deformato e palesemente connivente con la criminalità, l'assurda situazione che si consuma quotidianamente in Campania; una parte finale molto interessante sul rapporto tra cinema e mafia.
Cercheremo di rendere conto delle cose più stimolanti da lui dette, lasciando spesso e volentieri spazio alle sue stesse incisive parole. La cosa che forse più colpisce di Saviano dal vivo è infatti la sua abilità oratoria, la sua straordinaria capacità di coinvolgere e di appassionare chi ascolta con semplicità, senza tanti giri di parole o fronzoli, ma attraverso un'esposizione sintetica e densa, a tratti necessariamente dura e aggressiva. Tutte caratteristiche che d'altronde si ritrovano anche nel Saviano scrittore.
Le mafie (non) viste dai media. La realtà di una “guerra silenziosa”.
Il ventinovenne campano ha voluto fin dal principio specificare come quella messa in atto dalle mafie sia una vera e propria guerra, che ha fatto in Europa più morti del fondamentalismo islamico (“che invece sembra essere l'ossessione quotidiana della sicurezza di ogni paese”). Una “guerra silenziosa non perché non faccia rumore”, ma perché i media rimangono spesso in silenzio su queste vicende, e quando si pronunciano il commento è di solito sempre il medesimo: si ammazzano tra di loro. Questa per Saviano è la cosa più miope che possa essere detta, in quanto “non è affatto così. O meglio, spesso si ammazzano tra di loro. Ma chi sono loro e chi siamo noi lo decidono loro. Chiunque può divenire un loro se entra nelle dinamiche del loro scacchiere (dei media, n.d.r.). Come ad esempio è accaduto al giovane ragazzo Dario Scherillo, completamente incensurato, ucciso mentre andava in motocicletta solo perché aveva avuto la sventura, dirà poi la sentenza del tribunale, di vestirsi come la vittima designata. Quello che si è portati a pensare in questi casi purtroppo è che se uno vive a Scampia o a Casavatore proprio una persona per bene, in fondo, non potrà essere.
La verità, ha proseguito Saviano insistendo su questo tema considerato evidentemente nevralgico, è che l'Italia dei grandi giornali, e ancor di più quella delle grandi televisioni, spesso non si rende conto di questa guerra che avviene in una parte del Paese ed è ignorata dall'altra. Una guerra che “non è una parola scelta dalla fantasia o da un narratore che vuole impressionare”, ma è una “guerra reale” che da quando lo scrittore napoletano è nato ha fatto solo nel suo territorio più di 4000 morti. Non si può eludere un dato del genere, così come è necessario tenere presente che le tre principali organizzazioni criminali italiane (la Camorra, la 'Ndrangheta e la Mafia) fatturano, secondo la stessa procura nazionale antimafia, l'enorme cifra di 100 miliardi di euro l'anno, all'interno della quale sono contemplati esclusivamente gli affari circoscritti al territorio nazionale. Considerando che la Fiat nel mondo fattura 50 miliardi di euro annui, ci si può facilmente rendere conto di come l'economia mafiosa sia di gran lunga la più grande economia italiana. È chiaro quindi che, al di là del politico, “fosse anche onesto”, organizzazioni che dispongono di una tale somma di denaro sono in grado di condizionare la politica “indipendentemente dal rapporto di corruzione. Come la condizionano Microsoft, Bmw e General Motors”.
Le mafie viste dal cinema. Il cinema visto dai mafiosi: l'influenza dei film sulla realtà dei clan
Prima del film di Matteo Garrone la settima arte non aveva mai rappresentato con tanto realismo il mondo delle mafie, cercando veramente di avvicinarsi quanto più possibile allo stato delle cose. Non a caso l'immagine di boss e sicari mafiosi è stata sempre legata, in particolar modo nel cinema americano, a figure carismatiche, perlomeno edulcorate, spesso affascinanti e mitizzate (si pensi a personaggi come Don Vito e Michael Corleone ne Il Padrino o al Tony Montana di Scarface). Naturalmente una visione del genere è quanto di più lontano dalla realtà ci possa essere (assai difficilmente un pluriomicida mafioso può essere considerato cool). Ed è proprio all'interno di questo cortocircuito tra la realtà e la sua rappresentazione che si innesta un meccanismo molto interessante e allo stesso tempo agghiacciante: generalmente non è il cinema ad imitare la realtà mafiosa, bensì il contrario. Se il cinema americano trasfigura la figura del mafioso fino a farne quasi un eroe, è chiaro allora che il mafioso in carne ed ossa proverà un certo gusto nell'imitare il suo alter ego di celluloide. Così il boss della cosca dei casalesi Walter Schiavone, fratello di Francesco Sandokan Schiavone, si fa costruire una villa identica a quella di Tony Montana/Al Pacino in Scarface; e il boss Cosimo Di Lauro, quando si presenta dinanzi alle telecamere poco dopo il suo arresto, si fa vedere vestito con un impermeabile nero e con i capelli tirati all'indietro come Brandon Lee ne Il Corvo. Questi due esempi ci fanno comprendere a fondo il perché i mafiosi, e in particolare i boss, siano così ossessionati dalla rappresentazione che un certo cinema fa del loro mondo: “È fondamentale mostrarsi come una star del cinema. Un boss si fa vedere pochissimo, vive sempre nascosto. Come può creare consenso intorno a sé? La leggenda di sé stesso come la crea? La crea uscendo nelle strade e mostrandosi come in Matrix, talvolta come in Pulp Fiction, come Michael Corleone”. È così che un boss riesce a farsi identificare dalle nuove generazioni come un vero capo: il cinema viene utilizzato come una “grammatica per avere consenso”.
I film hanno poi influenzato la realtà delle mafie anche in modi meno sofisticati e ancor più folli: negli ultimi anni sono aumentati esponenzialmente gli spari in pieno volto, tant'è vero che le chiazze di sangue che vediamo nelle foto dei cronisti sono sempre in corrispondenza della faccia. Ormai tutti sparano come in Pulp Fiction, vale a dire con la canna della pistola piatta (“sparare con la canna dritta è da sfigati”). Così facendo si manca sistematicamente il bersaglio e si è dunque costretti ad avvicinarsi alla vittima per freddarla. Si capisce dunque quanto sia smisurata l'influenza del cinema sui mafiosi (e ovviamente sugli uomini in generale), riuscendo a spingerli persino ad un ben poco conveniente cambiamento di operatività militare.
Pubblicato nel numero 11 di Cinem'art (Febbraio 2009)