venerdì 30 aprile 2010

Avatar: uno spartiacque nella storia del cinema

Dopo tanta attesa, prolungata di quasi un mese rispetto al resto del mondo per motivi che in parte hanno dell’esilarante (oltre a voler evitare di dividersi le sale italiane provviste di 3D con A Christmas Carol e Piovono Polpette, sembra che il ritardo nella programmazione sia stato dovuto all’eventuale sovrapposizione con i cinepanettoni), lo scorso 15 gennaio è uscito nei cinema italiani Avatar, il ritorno al cinema di James Cameron dopo ben dodici anni.
Le aspettative erano altissime e, senza tanti giri di parole, si può fin da subito affermare che non sono state tradite. Niente a che vedere, insomma, con i trailers in 2D che per mesi hanno invaso il web, che inevitabilmente si sono rivelati alla stregua di una presentazione di un ottimo videogioco. Vedere Avatar in 3D è stata un’esperienza straordinaria nel senso etimologico del termine (al di fuori dell’ordinario), nuova, eccitante, trascinante. Se è vero che nei decenni, in campo cinematografico, le innovazioni tecnologiche si sono continuamente susseguite, arrivando di volta in volta a modificare la concezione della fruizione dello spettatore (il sonoro negli anni venti, il colore negli anni trenta, i formati panoramici negli anni quaranta e cinquanta, il Dolby Surround negli anni settanta), è altrettanto innegabile che il 2009 verrà ricordato come l’anno di Avatar e del 3D, per la prima volta utilizzato al cinema davvero per il suo enorme potenziale: a differenza di tutti gli esperimenti precedenti, infatti, ogni singola inquadratura si palesa agli occhi di chi guarda come appositamente studiata per essere ripresa in 3D, con un utilizzo ed una resa della profondità sbalorditive.

Per due ore e mezza lo spettatore viene letteralmente immerso in Pandora, il fantastico e incantevole mondo abitato dalla razza aliena dei Na’vi, minacciato da un agguerrito esercito dei marines alla ricerca, per conto di potenti multinazionali, di un minerale molto prezioso – naturalmente, ogni riferimento all’Iraq, al petrolio e alla politica guerrafondaia dell’amministrazione Bush non è puramente casuale. Avatar è anche questo: oltre ad essere un super-kolossal iper-tecnologico che rappresenterà inevitabilmente uno spartiacque nella storia della settima arte (come si disse a posteriori nell’analisi di 2001: Odissea nello spazio, tra qualche anno si dirà di un prima e un dopo Avatar), è anche una grande storia d’amore interraziale e un inno ambientalista, ecologista e radicalmente antimilitarista. Senza soffermarci troppo sulla trama, in cui vi imbatterete quando andrete a vedere il film, ci sembra importante notare che l’opera di James Cameron è di notevole interesse anche per come spinge senza esitazioni a parteggiare per gli alieni indigeni nella lotta contro i marines cattivi – o meglio, ignoranti e che fanno il gioco di chi, a capo di grandi lobbies, finanzia morte e sangue per meri motivi economici. Al di là dei grandiosi effetti speciali, che si sposano alla perfezione con le tecniche di ripresa 3D (in un tale contesto, non deve passare in secondo piano il livello sopraffino della ormai nota performance capture), ciò che fa funzionare il film nel complesso sono, come sempre, la storia, la caratterizzazione dei personaggi e le relazioni che li lega. Anche se non è difficile notare l’incredibile somiglianza tra la trama di Avatar e quella di Pocahontas, come hanno sottolineato giustamente diversi critici d’oltremanica. Per non parlare delle assonanze varie con diversi successi della storia del cinema recente (Balla coi lupi, Titanic, Il signore degli anelli).
Avvolgente, intenso, da togliere il fiato, Avatar catapulta con grazia il fruitore in universo ammaliante e attraente, ridisegnando i confini e le possibilità dell’esperienza cinematografica. Sarebbe frettoloso e banale, comunque, teorizzare una prossima possente svolta dell’industria cinematografica in direzione del 3D, come presumibilmente faranno in molti dopo l’enorme successo internazionale del film – al momento in cui scriviamo, Avatar ha guadagnato circa 2 miliardi e 700 milioni di dollari in tutto il mondo, imponendosi come il più grande successo commerciale di sempre. In realtà, di certo ci sarà un impulso notevole verso questo tipo di tecnologia e le corporations saranno sempre più propense di prima ad investire grandi quantità di denaro in film digitali tridimensionali. Al contempo, però, la sensazione è che, anche per via dei costi del 3D (si stima che Avatar sia costato almeno tra i 230 e i 280 milioni di dollari, escluse le ingenti spese di promozione), si andrà ancora molto avanti con la bidimensionalità, capace fino ad oggi – non bisogna scordarselo – di suscitare emozioni fortissime e reazioni empatiche di livello eccelso.

Un altro elemento che colpisce di questo magniloquente e visionario blockbuster, è che in sostanza funziona come un film classico, sviluppandosi in maniera rigorosamente lineare e cronologica. Se si eccettuano le fragorose e spettacolari sequenze d’azione, lo sviluppo degli eventi e dei rapporti tra i personaggi principali è profondamente “classico”: basti pensare alla storia d’amore tra i due protagonisti e alla linea avventurosa continuamente intrecciate, o alla sistematica prevedibilità dell’incedere narrativo (ogni svolta è annunciata con anticipo, al fine di preparare gradualmente lo spettatore alla “novità”). Che un’innovazione tecnologica all’avanguardia come il 3D prosegua a braccetto con un’impostazione classica dovrebbe poter dire qualcosa ai teorici “radicali” del “post-classico” o del “post-moderno” cinematografico. Al di là di questa digressione teorica, comunque, c’è da dire che dodici anni di assenza dal cinema sono molti (l’ultimo film di James Cameron è Titanic del 1997), ma a posteriori ne è valsa davvero la pena. Con Michael Mann e Kathryn Bigelow, il regista di Aliens, Terminator e Terminator 2 verrà senza dubbio ricordato come il cineasta di film d’azione più importante degli ultimi trent’anni, quanto meno in ambito statunitense. In precedenza si è accennato ad un paragone con 2001: Odissea nello spazio. In chiusura è bene fare una precisazione, così da non essere travisati: naturalmente Avatar non ha lo spessore complessivo del capolavoro di Kubrick, ma a livello tecnologico-esperienziale è una rivoluzione forse anche più grande. Chi ama il cinema in tutte le sue sfumature e sfaccettature, non può assolutamente esimersi dal vedere questo film.

Articolo pubblicato su cineforme.it

giovedì 29 aprile 2010

Nemico Pubblico: nel segno di Michael Mann


Il ritorno dietro la macchina da presa di Michael Mann, a tre anni dal folgorante Miami Vice (2006), è in parte – e a sorpresa – una delusione. Un mezzo passo falso. Ambientato nel 1933 sullo sfondo di un'America ancora alle prese con la Grande Depressione, Nemico Pubblico è un film certamente solido dal punto di vista narrativo nonché godibile, essendo però sostanzialmente avaro di grandi emozioni, fondamentalmente piuttosto freddo. E questa per un film di Michael Mann è davvero una notizia. La celebre commistione manniana di action e romance (sulla quale ritorneremo più avanti in modo approfondito) volta solitamente a rappresentare l'umanità dei personaggi portati sullo schermo, e così riuscita in opere di grande impatto visivo-emotivo come Heat - La sfida (1995), Collateral (2004) o Miami Vice, qui non funziona a dovere. La sceneggiatura (firmata a sei mani dallo stesso Mann, Ronan Bennett e Ann Biderman), in verità si concentra molto sulla relazione tra il gangster John Dillinger (Johnny Depp) e l'amata Billie Frechette (Marion Cotillard), facendone sulla carta il cuore della narrazione. Eppure a nostro avviso le vicende sentimentali del protagonista non coinvolgono più di tanto e non si integrano mirabilmente e con forza con il resto della trama, come poteva accadere ad esempio in un Heat o un Miami Vice. Rispetto a Heat e Collateral, poi, il classico duello tra “sfidanti” è chiaramente relegato sullo sfondo, tant'è vero che il personaggio del detective che dà la caccia a Dillinger, Melvin Purvis (Christian Bale), è appena abbozzato. Ciò è piuttosto spiazzante, dal momento che sulla sfida (anche dialogica) tra i due personaggi principali, in passatto il cineasta nordamericano aveva fondato una parte non trascurabile del fascino dei propri film. Come non ricordare gli scambi di battute tra Pacino e De Niro in Heat, o il rapporto tra il killer a pagamento Cruise e il tassista Foxx delineato in Collateral? Il motivo di tale scelta è legata con ogni probabilità al fatto che questa volta Mann aveva a che fare con un personaggio realmente vissuto, con una storia vera seppur inevitabilmente da romanzare. Dunque, costruire un fittizio rapporto tra fuorilegge e poliziotto sarebbe stato sì drammaturgicamente molto interessante, ma avrebbe probabilmente costituito un artificio eccessivo. Certo è che in questo modo il baricentro si sposta notevolmente sul rapporto tra Johnny e Billie, e il film alla resa dei conti ne risente vistosamente. La sfida tra Dillinger e Purvis quindi non si accende e rimane sullo sfondo, facendosi in parte emblema dell'opera tutta, che pure non arriva in nessun caso ad annoiare grazie ad una regia sempre ispirata che, insieme alle ottime interpretazioni di Johnny Depp e Marion Cotillard e alla fotografia del nostro Dante Spinotti, tiene a galla l'opera nel suo complesso. Nemico Pubblico vive a sprazzi di momenti felici (qualche sequenza d'azione, come ad esempio quella in cui Purvis uccide “Pretty Boy” Floyd, alcuni scambi dialogici davvero ben scritti tra Dillinger e Frechette, la suggestiva sequenza finale, in parte ambientata all'interno di un cinema, con Depp/Dillinger che si identifica nel criminale “gentiluomo” interpretato da Clark Gable in Manhattan Melodrama), ma per il resto si presenta incredibilmente piatto per essere un film di Mann. Le responsabilità ci sembra si possano rintracciare in particolar modo nello script, che questa volta non riesce nell'impresa di integrare con successo azione e sentimenti attraverso un impianto narrativo-drammaturgico ispirato, in grado al contempo di ospitare personaggi a tutto tondo. E il film per i suoi 140 minuti scorre anche piacevolmente, non lasciando però in chi guarda un'impronta indelebile, un segno intenso di sé.

Tutto ciò fa sì che non ci si appassioni fino in fondo alle vicende del gangster adorato dal popolo, agli inizi degli anni Trenta, come una sorta di icona pop ante litteram. L'utilizzo del digitale HD, costante espediente stilistico dell'ultimo Mann, pur portando ad un risultato complessivo più che buono, non si avvicina ai risultati espressivi strabilianti raggiunti con Miami Vice e ancor più con il precedente Collateral, la straordinaria sinfonia urbana, sfavillante e cupa allo stesso tempo, sulla solitudine dell'uomo nella metropoli contemporanea. Le scene d'azione però sono girate magnificamente, con un piglio vigoroso e coinvolgente che, in pieno stile Mann, gioca insistentemente su piani ravvicinati, montaggio serrato e continui movimenti (spesso e volentieri a mano) della macchina da presa. Il regista giunto per la prima volta sotto i riflettori della critica internazionale con Manhunter – Frammenti di un omicidio (1986), è un maestro indiscusso nel girare sequenze d'azione e, quando muove freneticamente la macchina da presa, riesce sempre a catturare con sorprendente forza l'attenzione di chi guarda, mostrandosi poi in grado – elemento per nulla secondario – di rifuggire dalla possibilità sempre incombente di creare confusione. Nella stragrande maggioranza delle pellicole contemporanee, infatti, le sequenze d'azione si risolvono sovente in un calderone di immagini poco chiare e di scarsa incisività, dalle quali si finisce per essere fondamentalmente disorientati (fare esempi come Michael Bay o Tony Scott da questo punto di vista è sin troppo facile). Mann invece in questi casi è abile come pochi nel controllare il materiale filmico a sua disposizione, essendosi senza ombra di dubbio rivelato nel tempo come il miglior regista di action movies in circolazione. La sua filmografia è gravida di esempi che confermano questa tesi, e non basterebbe il restante spazio a disposizione in questa rubrica per farne un elenco esaustivo. I film di riferimento da questo punto di vista, comunque, sono in particolare Heat, Collateral e Miami Vice. Solo Kathryn Bigelow ha dimostrato negli ultimi anni di sapersi proporre ad un livello eccelso con una certa continuità: si pensi alle messe in scena di Point Break (1991), Strange Days (1995), K-19 The Widowmaker (2002) o dell'ultimo The Hurt Locker (2008). A differenza dei film della Bigelow, la componente action nelle opere di Michael Mann, come si accennava in apertura di articolo, non è mai slegata dal romance. O meglio, l'azione è sempre accompagnata da una particolare attenzione nei confronti dei sentimenti dei personaggi messi in scena, del loro peculiare aspetto umano. Tutti i protagonisti dei film di Mann, infatti, sono sempre innanzitutto degli esseri umani, ancor prima che killer, ladri o poliziotti, giornalisti o manager dell'industria del tabacco. Le loro vicende familiari e/o sentimentali giocano un ruolo di primo piano all'interno della trama principale. Un esempio paradigmatico è quello di Miami Vice, dove alcune belle sequenze raffiguranti il sentimento amoroso che si ripropone o sboccia tra le due coppie protagoniste, sono sapientemente intrecciate con lo sviluppo delle vicende diegetiche principali, fungendo con grande efficacia da “pause sentimentali” (Mereghetti) nel flusso costante e frenetico dell'azione. Al centro dell'action movie manniano, dunque, c'è senza ombra di dubbio l'uomo. Queste pause sentimentali sono facilmente rintracciabili in film anche diversi tra loro come Insider – Dietro la verità (1999), Alì, Heat. Lo stesso L'ultimo dei Mohicani (1992) fa evidentemente leva in maniera decisa sulla relazione sentimentale tra Daniel Day-Lewis, inglese di nascita adottato da una famiglia di indiani d'America, e l'attraente Madeleine Stowe, figlia di un colonnello britannico. A proposito e a conferma di quanto scriviamo, è interessante rendere conto di come esprima il nostro stesso concetto Alessandro Canadè sul sempre utile Dizionario dei registi del cinema mondiale (Einaudi): “Mann sembra condividere quello stesso «impegno» etico ed estetico verso un «cinema antropomorfico», verso il racconto di «storie di uomini vivi nelle cose» che in un celebre articolo apparso sulla rivista «Cinema», nel 1943, accompagna l'esordio al cinema di Luchino Visconti”. Il parallelo tra la poetica manniana e quella esposta nel Cinema antropomorfico viscontiano, ospitato dalla celebre rivista che diede un impulso decisivo al cosiddetto “movimento” neorealista, potrebbe effettivamente sembrare azzardato. Ma in fondo è da considerarsi felice e d'effetto per come rende efficacemente l'idea di un cinema costantemente volto a coltivare un fruttuoso rapporto con i propri personaggi. Una volta Mann, come riporta ancora lo stesso Canadè, ha esplicitamente affermato: “Se esiste una ragione per cui valga la pena di fare il regista, è quando posizioni la macchina da presa davanti agli attori, e senti la loro stessa vita passare attraverso la lente”.

Questo peculiare sforzo del regista statunitense nel tentativo di conferire umanità ai propri personaggi, è dunque una componente imprescindibile della sua poetica, strettamente legata ad un percorso autoriale che, a partire da Heat, ci sembra abbia assunto i tratti di una vera e propria “missione”: dare profondità e consistenza al film d'azione, attuandone, in un'epoca di blockbusters spesso fracassoni e grossolani, un significativo processo di nobilitazione. L'opera di Michael Mann è per chi scrive, oggi, l'esempio principe di come si possa dirigere in maniera impeccabile un film d'azione d'intrattenimento ad alto budget, visivamente potente, che abbia qualcosa da dire e continua voglia di sperimentare. Ricordandoci immancabilmente ogni volta le potenzialità insite in un action movie costruito ad arte, mediante un uso sinergico e simbiotico di immagini e musica. Come abbiamo più volte avuto modo di argomentare sulla nostra rubrica, ad esempio parlando del cinema di Darren Aronofsky, Quentin Tarantino, Paul Thomas Anderson o Wes Anderson, nella maggior parte del cinema americano contemporaneo più interessante (una delle poche eccezioni è il maestro Clint Eastwood), la musica riveste un ruolo di primaria importanza, cercando costantemente un vivo dialogo con movimenti della macchina da presa o interni all'inquadratura, fino a diventare in taluni casi un forte e strutturato veicolo di senso. Si pensi a questo proposito al vigoroso incipit di Miami Vice, ambientato all'interno di una discoteca e che si alimenta di uno sfondo sonoro ad altissimo volume che ben si addice all'intenso ricorso a una molteplicità di inquadrature; oppure, nello stesso film, al sublime doppio finale, infine confluente in uno solo, in cui vengono presentati due differenti climax legati in diversi modi alle vicende sentimentali dei due protagonisti della pellicola. Ma si pensi ancora, tra i numerosi possibili esempi, ad alcune straordinarie sequenze di combattimento sul ring di Alì, o anche alla voce di Chris Cornell che accompagna l'apparizione quasi epifanica del coyote per le strade dell'alienante Los Angeles di Collateral.
Incontrastato maestro del film d'azione, Mann ha però dimostrato nel corso della sua carriera di poter essere anche autore eclettico. Oltre ad essersi cimentato con successo, ormai diciassette anni orsono, con la tradizione del cinema in costume dal respiro storico-epico (L'ultimo dei Mohicani), nell'ultima decade ha fatto vedere che, quando ha deciso di muoversi oltre quel perimetro dell'action movie che rappresenta il suo habitat naturale, i risultati sono comunque sempre stati eccellenti: Insider è un film di denuncia di innegabili solidità e spessore che si schiera apertamente contro le multinazionali del tabacco; Alì è invece uno dei più audaci, antiretorici e inventivi biopic della storia del cinema recente. Nemico Pubblico con ogni probabilità non verrà ricordato come uno dei suoi film più riusciti. Anzi, a nostro avviso è piuttosto chiaramente il suo film meno riuscito perlomeno dai tempi di Heat, deludendo nella misura in cui fallisce laddove le proprie precedenti opere sbancavano (intensità di fondo, prorompente forza estetico-sonoro-visiva, fine impianto drammaturgico). Eppure il ritorno di Mann alla regia di questi tempi è sempre, nonostante tutto, una gran bella notizia.

Articolo pubblicato nel numero 18 di Cinem'Art (Novembre/Dicembre 2009)

mercoledì 28 aprile 2010

Shutter Island: l'isola del rimosso

Che ci aspettavamo molto da Shutter Island lo avevamo già scritto nella rubrica “Stars & Stripes” del numero 17. Quando un autore di un certo spessore sente il bisogno di cimentarsi con atmosfere riconducibili all’horror, generalmente è lecito attendersi un’opera complessa che vada oltre la superficie della trama, per presentare in maniera più o meno evidente, a seconda dei casi, un composito e profondo tessuto metaforico capace di far riflettere sulla società e sul mondo che ci circonda. Non è certo un mistero, infatti, che con La notte dei morti viventi (1968) per la prima volta si siano palesate in tutta la loro potenza, nel genere horror, le enormi possibilità espressive del sottotesto. In tal senso, l’esempio più alto nella storia del cinema è Shining (1980) di Stanley Kubrick, che a sua volta sempre nel 1968 con 2001: Odissea nello spazio aveva condotto, nell’ambito del genere fantascientifico, un’operazione molto simile a quella di Romero, aprendo la science fiction cinematografica ad orizzonti fino a quel momento impensabili. Shutter Island certamente non va in questa direzione: le sue ambizioni sono ben più contenute ma, come cercheremo di argomentare, è comunque da considerarsi un eccellente film di genere, in grado di riportare ai fasti delle produzioni hollywoodiane degli anni quaranta o cinquanta. L’opera di Scorsese – la cui uscita nei cinema, inizialmente prevista per ottobre dello scorso anno, è stata posticipata in tutto il mondo di cinque mesi per mancanza di liquidità della Paramount e per l’indisponibilità di DiCaprio nel partecipare alla promozione del film – proprio come Shining non è direttamente ascrivibile al genere horror, tuttavia, però, rimanda chiaramente agli oscuri e labirintici meandri della mente umana. Trovando nella scenografia di Dante Ferretti e nella fotografia di Robert Richardson (entrambi collaboratori di lungo corso di Scorsese) degli evidenti punti di forza.
Tratto dall’omonimo best-seller del 2003 di Dennis Lehane (autore anche di Mystic River, il cui adattamento cinematografico ha portato al grande film di Clint Eastwood), Shutter Island è ambientato nel 1954 in un’isola al largo di Boston su cui sorge un imponente ospedale psichiatrico per criminali psicopatici. Teddy Daniels, agente federale di una certa fama e veterano della seconda guerra mondiale (Leonardo DiCaprio), si reca in loco in compagnia del collega Chuck Aule (Mark Ruffalo) per indagare sul misterioso caso di Rachel Solando, una paziente scomparsa senza aver lasciato dietro di sé alcuna traccia della fuga. La struttura in cui sono rinchiusi i pazienti è divisa in tre padiglioni (uno riservato agli uomini, uno alle donne, l’altro ai soggetti più pericolosi) ed è gestita dal dottor Cawley (Ben Kingsley) e dal sinistro dottor Naehring (Max von Sydow), figure che fin dall’inizio si rivelano piuttosto ambigue, dando in più occasioni la sensazione di non avere alcun interesse nell’agevolare il lavoro dei due agenti. Con il procedere delle indagini, il mistero si infittisce sempre di più e Teddy, oltre a sospettare che l’ospedale sia in realtà una copertura per dei macabri esperimenti sul cervello dei pazienti, inizia persino a dubitare del proprio collega.

Il film è stato accolto dalla critica nordamericana e italiana in maniera pressoché tiepida. Ci sono stati anche dei critici importanti che lo hanno apprezzato moltissimo (più avanti ne citeremo uno statunitense), ma la maggioranza è stata concorde nel sottolineare come il film perda progressivamente in incisività e coerenza con il passare dei minuti, smarrendo così il bandolo della matassa proprio nel momento cruciale in cui comincia ad addentrarsi nel cuore del racconto filmico. Al contrario, a nostro avviso, Shutter Island è un thriller con evidenti e stimolanti venature horror e noir, in cui le convenzioni di ognuno di questi generi riescono a convivere in maniera assai felice per tutto l’evolversi delle vicende diegetiche. Ciò avviene in primis grazie a due elementi decisivi: la solida e calibrata sceneggiatura di Laeta Kalogridis, molto abile nella gestione di cambi di ritmo, momenti di suspense e colpi di scena nonostante le sue prove precedenti (Alexander di Oliver Stone e Pathfinder – La leggenda del guerriero vichingo) non avessero convinto granché; la regia impeccabile di Scorsese, che riesce in ogni momento ad assecondare perfettamente i risvolti narrativi, affascinando lo spettatore e accompagnandolo sapientemente per l’intera durata della pellicola.
Teso, coinvolgente e girato con la maestria che ormai da decenni contraddistingue il suo navigato regista, Shutter Island tuttavia, nonostante sia magnificamente confezionato e possa essere considerato senza riserve al livello dei lavori dell’ultimo Scorsese (da Gangs of New York in poi), non asseconda quella che probabilmente era la speranza di molti cinefili. Difatti, che il celebre cineasta italo-americano fosse in grado di trarre dall’avvincente romanzo di Lehane una pellicola ineccepibile sul piano della costruzione narrativa ed estremamente stimolante dal punto di vista figurativo e della messa in scena, lo si poteva anche dare per scontato. Ciò che con ogni evidenza manca al lavoro di Scorsese è proprio quel sottotesto allegorico di cui si parlava in riferimento a Shining e La notte dei morti viventi. Per quanto Todd McCarthy sia indiscutibilmente uno dei più rilevanti e rispettati critici statunitensi, la sua affermazione secondo la quale Shutter Island occuperebbe nella filmografia di Scorsese la medesima posizione ricoperta da Shining nell’opera di Kubrick, ci sembra palesemente esagerata e ben poco condivisibile. Anzi, una delle poche stonature che emergono dallo script del film, appare proprio legata a quello che sembra un incomprensibile tentativo, isolato e mai più ripreso nel prosieguo della narrazione, di rimandare al capolavoro di Kubrick: quando Teddy Daniels e il partner Chuck Aule entrano per la prima volta nell’edificio in cui dimora il dottor Cawley, questi li informa del fatto che la struttura, così come il padiglione C in cui sono internati i pazienti più pericolosi, è stata costruita all’epoca della guerra civile. L’assonanza con ciò che viene detto a Jack Nicholson all’inizio di Shining sull’Overlook Hotel, le cui fondamenta erano state erette su un villaggio indiano distrutto, non sembra casuale. Anche se l’affermazione del dottor Cawley, inserita un po’ pretestuosamente (almeno è questa l’impressione che abbiamo avuto dopo la prima visione), non si materializza in alcun modo come un invito a leggere la struttura profonda del film, nel caso di Shutter Island pressoché inesistente.

Ad ogni modo, Scorsese con questa sua ultima fatica ci regala senza dubbio un ottimo film di genere, in cui, come già si accennava in precedenza, elementi tipici del noir (il protagonista dal passato tormentato alle prese con un caso che lo mette a dura prova) e dell’horror (il penitenziario colmo di criminali psicopatici, l’ambientazione costantemente cupa e minacciosa) si fondono felicemente all’interno di un thriller coinvolgente e sostanzialmente privo di falle; il cui tallone d’Achille è, forse, quello di essere fin troppo prodigo in spiegazioni conclusive, non lasciando assolutamente nulla all’immaginazione dello spettatore. In ogni caso, è necessario sottolineare che tale scelta è in fondo totalmente coerente con la natura della pellicola, caratterizzata com’è da un forte legame con il tradizionale cinema di genere, tendenzialmente poco incline a finali aperti a più interpretazioni. Davvero molto interessante il personaggio offerto a Leonardo DiCaprio, sempre più attore feticcio di Scorsese (è ormai alla quarta collaborazione consecutiva) e qui alle prese con un tipo di ruolo che nella storia del cinema hollywoodiano raramente è stato ricoperto da una star di prima grandezza.

Articolo pubblicato nel numero 20 di Cinem'Art (Marzo-Aprile 2010)

lunedì 26 aprile 2010

Il malinconico mondo di Fantastic Mr. Anderson


Se si fa eccezione dei suoi fan più accaniti, in molti tra pubblico e critica ritenevano che, dopo il riuscito The Darjeeling Limited (2007), Wes Anderson avesse bisogno di confrontarsi con qualcosa di decisamente diverso rispetto alle sue opere precedenti. Un colpo da dilettanti (1996), Rushmore (1998), I Tenembaum (2001), Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004), nonché appunto il lavoro sopra citato, sono infatti tutti ottimi film molto simili tra loro. Ognuno dei quali incentrato su un ristretto gruppo familiare e/o di amici: esseri umani spesso profondamente segnati dal dolore, dalla mancanza di importanti figure familiari di riferimento, da complessi vari e pressanti desideri inappagati; personaggi in balia della sorte, il più delle volte privi di prospettive definite e alla disperata ricerca di comprensione e redenzione. Le storie in cui queste figure si muovono, poi, sono scarne e condite da quel caratteristico tratto poetico che porta il cineasta di Houston ad affrontare disavventure e problemi della vita con encomiabili umanità e sensibilità, oltre che con una complessiva, affascinante leggerezza nella quale convivono sempre una peculiare agrodolce ironia e una malinconia di fondo più o meno marcata. Se l’eclettismo o la poliedricità generalmente sono il terreno sul quale davvero si misura la grandezza di un artista (sia questi un poeta, un pittore, un musicista o un regista), allora è del tutto comprensibile che a questo punto da Wes Anderson – dopo cinque lungometraggi che hanno meritevolmente attirato l’attenzione dei critici – ci si aspettasse un progetto che in qualche modo si distanziasse da quanto visto in precedenza.

Una nuova sfida: lo stile e l’aspetto visivo

È in questo contesto che crediamo si debba inquadrare Fantastic Mr. Fox (2009, uscito in questi giorni nei cinema italiani), un affascinante, ironico, spassoso ma al contempo malinconico cartone animato vecchia maniera, girato in gran parte attraverso quella classica tecnica dello stop motion che permette di animare su pellicola veri modellini e pupazzi in miniatura. In un’epoca in cui oramai l’industria dell’animazione si sta dirigendo con forza verso il digitale (oltretutto con ottimi risultati: si pensi in primis al caso Pixar), Anderson ha scelto di andare in una direzione opposta, ad oggi decisamente controcorrente, nonostante sia stata intrapresa in modo significativo da Tim Burton nel passato recente con Nightmare Before Christmas (1993) e La sposa cadavere (2005). E vedendo la sua opera, sin dai primissimi fotogrammi ci si sente piacevolmente immersi in questa atmosfera démodé, anacronistica e bizzarra, che finisce per risultare perfettamente in sintonia con il mood e la tipicità delle relazioni tra i personaggi messi in scena.
Se, come vedremo più avanti, sul piano dei contenuti e dell’approccio alla materia narrativa, Fantastic Mr. Fox è evidentemente legato a doppio filo alla poetica andersoniana, per quanto concerne lo stile e l’aspetto visivo il film ha sicuramente rappresentato per il regista una sfida di un certo rilievo.
Il film-maker texano è riuscito in pieno a trasportare la propria autorialità nel campo del film d’animazione, realizzando quello che forse può essere definito come il più cinematografico tra i cartoni animati. L’avventurosa storia della volpe Mr. Fox e della sua famiglia è, infatti, narrata attraverso un linguaggio filmico ricco ed efficace: zoom in avanti e zoom indietro, carrelli laterali e in avanti (se così possono essere chiamati tali espedienti stilistici nel caso di un film in stop motion), un tripudio di primi piani, numerose soggettive piuttosto evocative, nonché persino alcune panoramiche a schiaffo e semi-soggettive di un cane rabbioso. Nei movimenti della macchina da presa e nel ritmo con cui si alternano le inquadrature, Anderson a tratti riesce a raggiungere un’intrigante “musicalità”, alquanto insolita per un cartone animato. Senza dimenticare il decisivo apporto del talentuoso e nutrito team di animatori e creatori di pupazzi e modellini, si può insomma affermare che il risultato dal punto di vista estetico è davvero formidabile.

La narrazione: ispirazione letteraria e continuità poetica

Tratto dall’omonimo racconto illustrato dello scrittore Roald Dahl, divenuto famoso dopo la seconda guerra mondiale come autore tanto di libri non convenzionali per bambini quanto di brevi racconti per adulti, Fantastic Mr. Fox ne segue abbastanza fedelmente gli sviluppi. Naturalmente con delle aggiunte (in particolare l’entusiasmante prologo e l’epilogo) e in generale con una serie di differenze, come è doveroso che avvenga nel caso di un adattamento cinematografico: cercando però evidentemente di rimanere il più fedele possibile allo spirito complessivo dell’opera letteraria e all’essenza dei personaggi in essa raffigurati. D’altronde Anderson, intervistato durante la promozione del film, si è più volte pubblicamente dichiarato un grande ammiratore di Dahl. E non è certo difficile comprenderne i motivi: le modalità con le quali lo scrittore, pur avendo come target di riferimento dei fanciulli, delinea i rapporti tra i personaggi e le vicende di cui questi sono protagonisti, vanno sempre nella direzione di una costante e suggestiva sinergia tra ironia e malinconia, leggerezza e disincanto. Tanto che abbozzare un paragone tra le poetiche dello scrittore e del cineasta non risulterebbe di certo azzardato.
Alla luce di questi discorsi, dunque, non deve sorprendere che Anderson abbia deciso di evidenziare sin da subito e in modo palese la matrice letteraria del suo lungometraggio, aprendolo con una citazione diretta del racconto di Dahl (“Boggis and Bunce and Bean, one fat, one short, one lean. These horrible crooks, so different in looks, were none the less equally mean”), seguita poi significativamente – dopo pochi credits produttivi – da un’immagine della copertina del libro. Sempre in questa direzione, va vista inoltre la decisione di organizzare la struttura narrativa intorno ad una serie di brevi capitoli, proprio come nel caso del racconto, mantenendo anche in diverse occasioni gli stessi titoli dei capitoli del libro.
Arrivati a questo punto, diviene quanto mai necessario dedicare qualche riga alla storia del film, così da poter poi analizzare sinteticamente i motivi dell’originalità dell’operazione andersoniana sul piano narrativo. In particolare rispetto al genere d’animazione. Mr. Fox è una volpe astuta e affascinante, un narcisistico oratore sempre con la battuta pronta. Abile ladro di polli e galline, lavora in coppia con la bella moglie Mrs. Fox, la quale però lo convince ad abbandonare questo tipo di vita dopo aver scoperto di essere incinta. Per mantenere legalmente il figlio Ash, Mr. Fox si dà così alla carriera giornalistica. Insoddisfatto della sua abitazione sottoterra, decide di compiere uno sforzo economico per comprarsi una casa all’interno di un bel faggio, trovata ad un prezzo favorevole in quanto situata a poca distanza dagli allevamenti dei tre contadini più ricchi e spregevoli della vallata, i temibili Walt Boggis, Nate Bunce e Frank Bean. Il primo è un grasso allevatore di galline che “pesa quanto un giovane rinoceronte”, il secondo, così basso che “il suo mento finirebbe sott’acqua anche nella meno profonda piscina del pianeta”, alleva anatre e oche, mentre il terzo, “magro come una matita e furbo come una tagliola”, è allevatore di tacchini, coltivatore di mele e di gran lunga il più pericoloso di tutti. I guai per Mr. Fox e la sua famiglia cominciano quando il primo non riesce a resistere alla tentazione di organizzare, di nascosto dalla moglie, un triplo colpo volto a derubare i contadini. Per portare a termine l’impresa, si avvale dell’aiuto di un rintronato ma fedele opossum di nome Kylie e del nipote Kristofferson, ragazzo dalle invidiabili doti atletiche e di un certo fascino.
Le innumerevoli peripezie che i protagonisti devono affrontare per evitare di essere catturati e uccisi dai malvagi Buggis, Bunce e Beane vengono raccontate, oltre che con affascinanti trovate visive, con un ritmo incalzante e un uso della musica inconsueto per un cartone animato: Alexandre Desplat ha composto degli sfondi sonori molto stimolanti (alcuni rimandano anche a Morricone e alle sonorità del “western all’italiana”) e il ricorso a brani come Heroes and Villains, I Get Around e Ol’ Man River dei Beah Boys o Street Fighting Man dei Rolling Stones risulta assolutamente vincente. Il tutto, come si accennava in precedenza, avvolto da un’atmosfera spassosa ma al contempo malinconia, di certo inusuale per un film d’animazione. Mr. Fox maschera evidentemente con la parlantina e le proprie abilità imbonitorie l’insoddisfazione per il lavoro che svolge (dichiara lui stesso di scrivere per un quotidiano di scarsa qualità) e per la non florida situazione economica familiare, Ash soffre perché teme di non essere apprezzato dal padre per quello che è ed invidia il fascino di Kristofferson, il quale invece è preoccupato per le precarie condizioni di salute del padre, il fratello di Mrs. Fox. Quest’ultima, sebbene innamorata del marito, si lamenta apertamente con lui della sua incapacità di ascoltare chi gli sta accanto, cosa di cui in uno dei momenti più toccanti del film sembra finalmente accorgersi lo stesso Mr. Fox.

Non c’è quindi da meravigliarsi se capita di assistere a dei dialoghi (la sceneggiatura è dello stesso Anderson e del fido Noah Baumbach) che, allo scopo di delineare i sentimenti appena descritti, tradiscono delle venature malinconiche piuttosto marcate. Non è da tutti i giorni ascoltare, in un cartone animato, frasi come quella pronunciata da Mr. Fox mentre spiega alla moglie il suo desiderio di trovarsi una casa più ampia e confortevole (“Tesoro, ho sette anni umani. Mio padre morì a sette anni e mezzo. Non voglio più vivere in un buco. E ho intenzione di fare qualcosa al riguardo”) o quella che Mrs. Fox rivolge al marito nella bellissima sequenza della fogna che li vede protagonisti sullo sfondo di una cascata d’acqua piovana (“Ti amo anch’io, ma vorrei non averti sposato”).
È evidente come con Fantastic Mr. Fox Wes Anderson, investigando possibilità d’espressione per lui inedite e dimostrando di sicuro la volontà di provare qualcosa di differente, sia al contempo riuscito con sapienza ad inserire in un contesto d’animazione i tipici stilemi narrativi del proprio cinema. Sperimentando molto dal punto di vista estetico, ma in fondo rimanendo estremamente fedele al proprio malinconico e vitale mondo poetico. Sarà questo un punto di partenza per un prossimo, più deciso, cambio di rotta?

Articolo pubblicato nel numero 20 di Cinem'Art (Marzo-Aprile 2010)

sabato 24 aprile 2010

Il petroliere: There Is a Masterpiece


A cinque anni di distanza dalla distorta e surreale love story di Ubriaco d’amore, il regista/sceneggiatore statunitense Paul Thomas Anderson nel 2007 cambia decisamente registro e torna alla regia con una pellicola dura, profondamente cupa e pessimista, che a differenza di tutti i suoi lavori precedenti non lascia spazio alcuno a possibilità di speranza o redenzione. Come in Ubriaco d’amore, però, il giovane cineasta della San Fernando Valley mette di nuovo al centro della narrazione un unico personaggio, rimanendo dunque ancora lontano dalle narrazioni multiple dal sapore altmaniano di Boogie Nights e Magnolia.

Il petroliere (l'evocativo titolo originale, con cui giochiamo nel titolo dell'articolo, è There Will Be Blood) è un film audace, tanto coraggioso quanto complesso e al contempo profondamente radicato nella cultura americana: come ha giustamente scritto su Il Manifesto Giulia D’Agnolo Vallan all'epoca dell'uscita del film, imperniato sulle sue due anime primarie (il capitalismo e l’evangelismo). Un lavoro di grande valore che forse neppure dopo una terza visione dà a chi guarda la possibilità di coglierne appieno le diverse sfumature e i molteplici temi suggeriti tra le righe.

Ambientata a cavallo tra il XIX e il XX secolo (e più precisamente tra il 1898 e il 1927), l'opera è stata appropriatamente definita da diversi critici americani come un character study, vale a dire uno studio approfondito su un unico personaggio. Effettivamente la pellicola si concentra quasi esclusivamente su Daniel Plainview (un Daniel Day-Lewis di indicibile bravura), un uomo taciturno, essenzialmente solitario e misantropo, ossessionato dall’idea di arricchirsi grandemente scovando e comprando a somme molto basse territori colmi di oro nero. Oltre a Plainview – che è chiaramente una demitizzazione personificata del classico self-made man a stelle e strisce – l’altro personaggio che riveste una grande importanza all’interno della pellicola è Eli Sunday (interpretato dall’ottimo Paul Dano), l’ambiguo predicatore della comunità in cui giunge l’avido cercatore di petrolio e nella quale si svolge la estesa parte centrale della narrazione. Anderson ci mostra l’inarrestabile e progressiva ascesa del protagonista principale senza giudicarlo, senza infingimenti, evitando abilmente – come d’altronde ci ha abituati fin dal suo esordio con Sidney – di assumere atteggiamenti moralistici che sarebbero risultati del tutto fuori luogo. E nel frattempo introduce lentamente la sinistra figura del predicatore, che a poco a poco si rivela essere sempre più vicina e simile a quella di Plainview. Dal film emerge uno sguardo impietoso, privo di banali edulcorazioni, sull’avidità, l’egoismo e l’ipocrisia che albergano nell’animo umano.

Ciò che realmente sorprende è l’eclettismo di Anderson, il quale si mette in maniera encomiabile al servizio della storia che deve narrare e offre una prova registica sobria e perfettamente calibrata, piuttosto lontana dallo stile dominante in Boogie Nights, Magnolia e Ubriaco d’amore, che si alimentava spesso di rapidi e irrequieti movimenti di macchina e panoramiche a schiaffo. Qui i movimenti fluidi e lenti della macchina da presa, alla continua ricerca delle linee orizzontali o verticali di movimenti umani, trivelle, torri per l'estrazione, tubature o cinghie, sono in perfetta simbiosi con le immagini e con la straordinaria musica per orchestra composta da Johnny Greenwood, che funge da costante elemento perturbante concorrendo a dare forma a una sorta di sublime poema sinfonico-cinematografico crudo e oscuro.

venerdì 16 aprile 2010

"Segreti di Famiglia" ("Tetro"): anime slegate in attesa di un nuovo incontro


Dopo le affascinanti ma a tratti inintelligibili e confuse riflessioni filosofiche di Un'altra giovinezza, l'ormai redivivo Francis Ford Coppola torna nei cinema a soli due anni di distanza con Segreti di Famiglia, un tenebroso dramma familiare (tetro appunto, si direbbe riprendendo il titolo originale del film) che riesce a farsi al contempo anche gaio, appassionato, leggiadro racconto di formazione. La forza dell'ultimo film del regista di Apocalypse Now sta, infatti, proprio nel sapersi muoversi con altrettanta efficacia sia nelle atmosfere cupe da dramma lacerante, quanto in quelle spensierate e gioiose della commedia.
Bennie Tetrocini (Alden Ehrenreich) è un diciottenne scappato dalla scuola militare, con un passato familiare che sente burrascoso ma che non gli è chiaro. Dopo la fuga, trova lavoro come cameriere in una nave da crociera e, sfruttando la fatalità della rottura del motore della propria imbarcazione nei pressi del porto di Buenos Aires, decide di andare a trovare suo fratello più grande (Vincent Gallo), il quale vive nella capitale argentina e di cui non ha più notizie ormai da diversi anni. Bennie infatti era piccolo quando l'amato fratello, che ora si fa chiamare Tetro, se ne andò improvvisamente di casa senza dargli spiegazioni, per poi non farsi più vivo. Per il ragazzo incontrarlo di nuovo significa avere finalmente la possibilità di mettere a fuoco il motivo che spinse Tetro a scappare e, di conseguenza, di capire qualcosa in più sulla loro criptica famiglia, della quale sa ben poco. Una delle poche cose che Bennie sa, è che hanno una madre diversa: la sua è morta qualche anno dopo averlo dato alla luce, quella del fratello è deceduta in seguito ad un incidente stradale prima che lui nascesse. Ma Tetro si è ormai rifatto una nuova vita e dimostra fin da subito di non voler in alcun modo instaurare un dialogo su vicende che riguardino il passato comune. Parlando con la fidanzata di Tetro, Miranda, e frugando tra le cose del fratello, Bennie però comincerà gradualmente a trovare delle risposte alle sue domande. Nel frattempo, imparerà anche a conoscere la vita attraverso la freschezza e la genuina vivacità di un quartiere come “la Boca”, una volta abitato in gran parte da marinai genovesi immigrati e oggi popolato da numerosi artisti.

Coppola, qui anche autore unico della sceneggiatura originale, decide di ricorrere nuovamente al bianco e nero dopo 26 anni (Rusty il selvaggio è del lontano 1983). Questa volta per mostrare uno dei quartieri più colorati e vivi di Buenos Aires, utilizzando poi occasionalmente il colore “al contrario”, ovvero nei momenti in cui i due protagonisti ricordano o immaginano. Tale scelta conferisce un'indubbia forza visiva all'opera, la quale, come si diceva in precedenza, si fa forte in primis dell'abilità del regista nello spaziare con eguale disinvoltura da toni drammatici particolarmente marcati a toni più scanzonati, rappresentando così metaforicamente la complessa gamma di sentimenti, emozioni ed esperienze che ci accade inevitabilmente di provare nell'altalenante viaggio della vita. Non passerà alla storia per essere il suo film migliore, ma di certo Segreti di famiglia è un'opera interessante che appassiona notevolmente quando si concentra sulle “indagini” di Bennie, interpretato in modo davvero sorprendente dal diciottenne al suo primo lungometraggio Alden Ehrenreich. Ispirato con una certa evidenza a maestri del bianco e nero come Kazan e Welles, o anche in alcuni frangenti all'espressionismo tedesco per la composizione dell'inquadratura, il film può contare su una fotografia notevolissima (firmata ancora una volta, dopo Un'altra giovinezza, da Mihai Malaimare Jr.). Gli ultimi venti minuti, poi, sono figurativamente molto suggestivi (anche se tutto Segreti di famiglia lo è), con un colpo di scena finale che arriva quanto mai inatteso. La chiave del film sta nella scritta su un muro mostrata all'inizio del film: “non slegare la corda che mi lega alla tua anima”.

Articolo pubblicato nel numero 18 di Cinem'art (Novembre/Dicembre 2009)

giovedì 15 aprile 2010

Il treno per il Darjeeling: un surreale e sublime viaggio identitario lungo il territorio indiano


La trama, come d’altronde Anderson ci ha abituati fin dal suo esordio cinematografico, è poco più di un canovaccio: Francis Whitman, reduce da un terribile incidente motociclistico e rimasto vivo per miracolo, organizza un atipico viaggio in treno (il “Darjeeling Limited” a cui si rifà il titolo originale) attraverso l’India per sé ed i suoi due fratelli, Jack e Peter, nel tentativo di recuperare con loro quel rapporto interrottosi dal giorno della morte del padre, avvenuta l’anno precedente. In questo viaggio, durante il quale emergeranno tutte le loro problematiche (sia personali che interpersonali), impareranno faticosamente a fidarsi l’uno dell’altro, incontreranno di nuovo la madre e forse capiranno qualcosa in più su loro stessi e sulle rispettive vite. Al centro del nuovo film di Wes Anderson – come d’altronde in tutti i suoi lavori precedenti – interagiscono persone profondamente segnate dal dolore, dalla mancanza di importanti figure familiari di riferimento e da pressanti desideri inappagati, tutte figure in balia della sorte, spesso senza prospettive definite e alla disperata ricerca di comprensione, redenzione e, nel caso di quest’ultima pellicola, spiritualità.
Il topos del viaggio, come ricerca di sé e tentativo di recupero del rapporto con l’altro, viene affrontato da Wes Anderson con encomiabile umanità e grande sensibilità d’animo, senza rinunciare alla consueta agrodolce ironia: ed è proprio questo particolare e delicato approccio alle disavventure emotive dei protagonisti e ai loro problemi familiari ed esistenziali, a fare della pellicola un’opera del tutto singolare, nonostante il soggetto sia uno dei più presenti nell’immaginario cinematografico statunitense e mondiale.
Ne Il treno per il Darjeeling il giovane regista americano danza sublimemente – con un garbo ed una grazia assolutamente unici e con la soave malinconia propria dei poeti – sulle sofferenze, le angosce e le insicurezze dei tre fratelli Whitman, senza ostentarle e palesarle, ma facendole emergere lentamente da un mirabile e “scientifico” (in quanto chiaramente premeditato e ben studiato) composito di dialoghi, atteggiamenti, dettagli, immagini e suoni. In tal modo il regista, soprattutto in sede di sceneggiatura, nella quale è stato coadiuvato dai co-sceneggiatori Jason Schwartzman e Roman Coppola, gioca abilmente e assai fruttuosamente con il non-detto, lasciando il passato dei protagonisti quasi completamente all’immaginazione dello spettatore, che può solamente tentare di ricostruirlo interpretando ciò che rivela il presente filmico. Come sempre la colonna sonora (composta anche da musiche indiane riarrangiate e prese da pellicole di Satyajit Ray, il più importante regista indiano di tutti i tempi) ha un’importanza capitale, accentuando numerose volte quell’atmosfera surreale, tragicomica, eternamente sospesa tra ironia giocosa e malinconia, che avvolge l’intera opera andersoniana ed in particolar modo questo suo ultimo lavoro.
Senza ombra di dubbio con Il treno per il Darjeeling Wes Anderson si conferma, oltre che eccellente regista e direttore di attori (Owen Wilson nei suoi film fornisce sempre interpretazioni di un certo rilievo), un ottimo sceneggiatore, in grado di delineare con sapienza e in profondità personaggi sempre convincenti. Eccezionale la trovata legata ai titoli di coda, con la macchina da presa posizionata a fianco del “Darjeeling Limited” che continua a viaggiare lentamente lungo le rotaie e con il sottofondo musicale del leggiadro brano Les Champs-Elysées, che nello specifico contesto del film diviene una sorta di gioioso ed esaltante inno alla vita. Insieme a I Tenenbaum, il lungometraggio più sfaccettato, riuscito e maturo di Wes Anderson.

Articolo pubblicato nel numero 3 di Cinem'Art (Maggio 2008)

mercoledì 14 aprile 2010

"Manhattan" e quel malinconico amore per New York e per la Vita

Quando si pensa al cinema degli anni d'oro di Woody Allen (in particolare quello degli anni '70 e '80), la mente non può che soffermarsi sul suo appassionato, viscerale, genuino rapporto con New York, dove è nato, cresciuto e tuttora vive. È nella Grande Mela, infatti, che l'autore statunitense di origine ebrea ha girato alcuni dei suoi film più importanti e riusciti. Con l'uscita nelle sale del suo ultimo lavoro Basta che funzioni (Whatever Works il titolo originale), il quasi settantaquattrenne cineasta è tornato a parlare della sua adorata città natale dopo le ultime parentesi europee di Match Point, Scoop, Sogni e delitti e Vicky Cristina Barcelona.

Parlando del rapporto simbiotico tra Allen e New York è impossibile non soffermarsi su una delle pellicole maggiormente significative della sua filmografia, quel Manhattan del 1979 che si pone ancora oggi come la sua più esplicita dichiarazione d'amore (a tratti fortemente malinconica) a New York, nonché come una delle prove più convincenti della propria carriera, tanto dal punto di vista della costruzione dei dialoghi e della sceneggiatura, da sempre autentico cavallo di battaglia di Allen, quanto da quello della messa in scena.
Isaac è un noto autore comico del piccolo schermo che ha in cantiere un romanzo dalla forte matrice autobiografica. Viene da due matrimoni rivelatisi dei tragici fallimenti e al momento ha un'inconsueta relazione con una diciassettenne che sogna di fare l'attrice. Quando però il suo amico Yale, sposato da molti anni, decide di chiudere la storia con l'attraente amante Mary (Diane Keaton), Isaac se ne innamorerà perdutamente riuscendo naturalmente a complicarsi ulteriormente la vita.
Allen, da molti definito come un intellettuale prestato al cinema, non si nasconde e scopre subito le carte. Il bellissimo breve prologo del film è composto da una serie di inquadrature fisse, dei dettagli, delle suggestive cartoline in movimento della Grande Mela: si vedono grattacieli che svettano fieramente nei cieli, strade e vicoli affollati, Broadway, Central Park, una Times Square brulicante di luci, fino ad uno skyline notturno con tanto di fuochi d'artificio. Dopo questo incipit fortemente contestualizzante inizia il vero e proprio film, all'interno del quale, come sempre, prendono vita quei tipici personaggi di stampo alleniano nevrotici, confusi e persi, che loro malgrado si cacciano in situazioni sentimentali complicate e dalle prospettive nebulose. Finendo poi per fare del male a se stessi e a chi li circonda.


Questa volta però, come era d'altronde avvenuto anche due anni prima con Io e Annie, il regista newyorchese, pur facendo ampiamente ricorso alla sua caratteristica verve e al proprio trascinante sarcasmo, vira decisamente verso il registro malinconico nell'analizzare il rapporto di coppia da una prospettiva introspettiva e psicoanalitica. Parafrasando il titolo del film collettaneo girato nel 1989 dallo stesso Allen insieme a Scorsese e Coppola, in Manhattan ci vengono presentate delle semplici new york stories dalle quali, sullo sfondo di una città di cui con forza si decantano bellezza e unicità, emerge un'umanità che non sa smettere di ingarbugliarsi nei più svariati modi l'esistenza. E che, come dice in conclusione il protagonista Isaac con malinconica ironia e in un momento di pressante sconforto, “si crea costantemente dei problemi veramente inutili e nevrotici perché questo le impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi universali”.
Come si accennava in precedenza, Manhattan è anche una delle opere alleniane più interessanti dal punto di vista stilistico e della messa in scena, essendo un film davvero intrigante e ammaliante anche solo sul piano estetico. Come non citare, a tal proposito, lo straordinario uso del bianco e nero (eccellente il lavoro del direttore della fotografia Gordon Willis) che permette al cineasta di giocare in modo particolarmente efficace con il contrasto chiaroscurale dato dall'alternanza di luci ed ombre. Molto ispirata è poi la sequenza che segna la nascita del coinvolgimento tra Isaac e Mary, bizzarramente ambientata all'interno di un planetario in cui i due capitano casualmente per ripararsi da un vigoroso acquazzone: facendo una passeggiata lungo il sistema solare, impareranno a stimarsi vicendevolmente e forse ad iniziare ad amarsi. In questo contesto non si può non fare anche un breve cenno ai meravigliosi carrelli “a precedere” con cui vengono riprese le numerose camminate per i marciapiedi e per le strade newyorchesi dei vari personaggi, che con il loro movimento fluido assecondano in maniera mirabile la verbosità irrefrenabile e inquieta dei protagonisti del film.
Definita felicemente da Mereghetti nel suo Dizionario dei film come “una commedia nevrotico-crepuscolare”, l'opera colpisce in realtà anche per come si presenta gravida di passione, oltre naturalmente che per New York, per la vita nel suo complesso. Nonostante spesso faccia male, sembra dirci in fin dei conti Allen, la vita è comunque un qualcosa che vale decisamente la pena di essere vissuta. Con slancio, partecipazione e consapevolezza degli inevitabili e periodici alti e bassi.

Articolo precedentemente pubblicato su www.moviesushi.it

martedì 13 aprile 2010

Ubriaco d'amore: se l'amore si fa inarrestabile forza redentrice



Molta critica, dopo Boogie Nights e Magnolia, lo aveva apostrofato come un regista di talento ma eccessivamente incline alla pomposità e alla magniloquenza, incapace di muoversi lungo le coordinate di una storia semplice che non esibisse incroci di molteplici linee narrative, pur mirabilmente intrecciate. C'era già chi etichettava (dopo appena tre film!) l'allora trentaduenne Paul Thomas Anderson come un emulo di Robert Altman, la cui poetica sarebbe stata inevitabilmente incentrata sulla rappresentazione di un ricco caleidoscopio di vicende umane. Pur non rinnegando affatto uno dei suoi maestri e delle proprie maggiori influenze cinematografiche (nel 2003, già regista affermato, il nostro ha fatto in Radio America l'aiuto di un Altman in precarie condizioni di salute), la risposta del cineasta californiano non tarda ad arrivare.

lunedì 12 aprile 2010

The Hurt Locker: Kathryn Bigelow e l'immersione ai tempi del 2D


Kathryn Bigelow non è certo una cineasta prolifica. The Hurt Locker (2008) interrompe infatti un’assenza dagli schermi che durava da K-19 (2002), e in tutta la sua attività registica ha diretto solo 8 film in 26 anni, stabilendo una media di anni passati per ogni singolo film forse seconda solo a quella di Terrence Malick e Stanley Kubrick. In genere i suoi sono sempre lavori molto pensati, di grande caratura e, quando è in forma particolare, è in grado di realizzare pellicole indimenticabili (vedi alla voce Strange Days, opera del 1996 a cui si sono interessati un gran numero di studiosi di cinema e che viene mostrata in molti corsi universitari). Prendendo spunto dal reportage del giornalista Mark Boal (che ispirò Paul Haggis per l’ottimo The Valley of Elah), The Hurt Locker mostra con crudo e affascinante realismo la vita quotidiana di alcuni membri del team speciale americano antibombe, impegnato ogni giorno in Iraq nel tentativo di disinnescare le migliaia di ordigni esplosivi lasciati dai ribelli locali.
Il film è diviso in episodi (introdotti da una didascalia che informa progressivamente sul numero di giorni mancanti alla rotazione della squadra) che corrispondono a delle azioni del team sui luoghi in cui viene richiesto il loro intervento. A differenza di Haggis, la Bigelow sceglie di romanzare il meno possibile il materiale messole a disposizione dall’inchiesta giornalistica: lo spettatore assiste a quanto accade ai componenti della “Bravo Company” avendo la sensazione di essere anch'egli presente sul posto, vivendo profondamente le loro stesse emozioni e quindi immergendosi completamente nella loro tragica esperienza quotidiana. In cui la morte è sempre dietro l'angolo.
L'obiettivo che si pone la cineasta statunitense è quello di riportare il più fedelmente possibile (non a caso per la stesura dello script ha voluto lo stesso Boal) momenti della vita di guerra di questi soldati, sottolineando così l’assurdità della guerra limitandosi al semplice atto di mostrarla. In tal modo affronta il tema bellico con un’umanità e una profondità particolarissimi, facendo entrare di diritto The Hurt Locker tra le migliore pellicole di guerra mai girate. Questo approccio diaristico, che a causa della sua ridondanza potrebbe spiazzare più di qualcuno, ci sembra dunque essere un notevole punto di forza del film, che riesce egualmente ad appassionare e ad incollare alla poltrona chi guarda per tutta la sua durata, letteralmente senza un attimo di pausa. La Bigelow si conferma eccellente direttrice di sequenze d’azione (chi non ricorda le sequenze dello “SQUID” in Strange Days o i piani sequenza di Point Break e K-19?) e propone fin dall’incipit, straordinario per pathos e messa in scena, una regia mobilissima, virtuosa, nervosa, composta da movimenti di macchina secchi ed improvvisi, riprese con macchina a mano, stacchi frequentissimi (davvero non si conta il numero di inquadrature utilizzate). Ottenendo così l’encomiabile risultato di rendere lo spettatore estremamente partecipe di quanto succede, quasi portandolo fisicamente, di peso, al fianco dei soldati.
La sensazione netta è quella di assistere ad un film di grande importanza per come si avvicina a mostrare l’esperienza della guerra e, al contempo, di ammirare una vera e propria lezione di regia. Degna di un maestro. D’accordo, l’esperimento 3D allestito da James Cameron in Avatar è meraviglioso, un’orgia empatica sotto molti aspetti senza precedenti. Ma attenzione a gridare al passaggio epocale e a sottovalutare, dandola per spacciata, quella bidimensionalità che fino ad oggi ha fatto dell’espressione cinematografica una matura e potente forma espressiva: come dimostra The Hurt Locker, si può “immergere” e “avvolgere” lo spettatore anche a colpi di 2D e pellicola. Con risultati eccelsi.