giovedì 14 ottobre 2010

"Manderlay": Lars von Trier alle prese con la schiavitù dei neri d'America

Dopo Dogville, eccoci scrivere del secondo capitolo della trilogia sugli Stati Uniti d'America pensata da von Trier e che dovrebbe concludersi con Wasington, da molto tempo annunciato ma ancora sostanzialmente avvolto nel mistero.

1933. Grace, in compagnia del padre con il suo fido gruppo di gangster, torna a Denver per scoprire che il potere nella città è ormai in mano ad altre bande criminali. Il padre/boss decide allora di muoversi per l'America alla ricerca di una località nella quale stabilirsi con la forza. Durante una sosta davanti alla piantagione di Manderlay, però, Grace viene fermata da una donna di colore che la prega di aiutarla, denunciando la condizione sua e dei propri compagni di lavoro, trattati ancora come schiavi dai proprietari della tenuta. Da qui parte il film e comincia a svilupparsi il personale e per nulla scontato discorso di von Trier su uno dei momenti cardine della storia americana: la schiavitù dei neri e, più ad ampio raggio, la questione razziale.

Parlando di Manderlay non si può prescindere da considerazioni di carattere estetico. Fin da subito infatti colpiscono quella serie di strategie della messa in scena attuate già nel precedente Dogville: luci che cambiano d'intensità in modo anche brusco tra inquadrature contigue, illuminazione marcatamente teatrale, grandi spazi vuoti e spettrali su sfondo nero nel contesto di una scenografia che definire “povera” o minimalista è un eufemismo. Lo stile è nervoso (continui zoom, cambiamenti di fuoco improvvisi, movimenti di macchina costanti e irrequieti) e il numero di inquadrature molto elevato: a dispetto delle apparenze ci troviamo agli antipodi di quello che si potrebbe definire un teatro filmato. Piuttosto si può parlare di un cinema estremamente teatralizzato e stilizzato negli elementi scenografici.

Tutti questi elementi fanno sì che l'enfasi sia posta sui personaggi, le loro parole e i loro sguardi. Superate le iniziali difficoltà dovute al fatto di assistere a qualcosa che è molto lontano dalle consuete esperienze cinematografiche, lo spettatore è messo nella condizione di appassionarsi all'insolito mondo tratteggiato da von Trier, stimolato in maniera particolare dalla presenza della voce narrante che spesso fornisce con le parole quei dettagli scenografici negati sul piano visivo. Consapevole dell'inevitabile falsità del cinema, il cineasta danese si sforza di farla emergere quanto più possibile. E non è certo un caso se il film inizia con l'esplicita didascalia “Il film Manderlay è raccontato in otto capitoli”, o se l'ultimo capitolo si chiama “Alla fine Grace fa i conti con Manderlay e il film ha termine”.

Davvero ottima l'interpretazione di Bryce Dallas Howard, riuscita nell'impresa di sostituire più che degnamente Nicole Kidman nel ruolo di Grace. Non è affatto scontato che un cinema di questo tipo piaccia. Ma può rivelarsi estremamente affascinante per chi ha la pazienza e la voglia di lasciarsi andare e mettersi un po' in gioco.

martedì 12 ottobre 2010

"Dogville" di Lars von Trier: un'agghiacciante parabola sulla ferocia umana

Dogville (2003) è un film caustico, radicalmente pessimista e che quasi fastidiosamente non offre mai allo spettatore alcun tipo di speranza o riconciliazione. La prima parte della trilogia sugli Stati Uniti d'America pensata da von Trier (dopo Manderlay del 2005, manca ancora all’appello l’ultimo episodio), è un'opera sconfortante come poche altre per il modo in cui descrive analiticamente l'innata ferocia che alberga nell'animo umano. Da questa prospettiva può venire in mente, anche se si tratta di due film diversissimi, lo sconvolgente Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah con Dustin Hoffman.
Grace (un'ottima Nicole Kidman) giunge improvvisamente nella cittadina di Dogville, isolata ai piedi delle Montagne Rocciose e abitata da un piccolo gruppo di persone. La ragazza sta scappando da alcuni misteriosi gangster e ottiene ospitalità dopo un periodo di prova di due settimane in cui dimostra di poter essere utile alla comunità. Inizialmente le cose sembrano andare bene e Grace appare felicemente integrata. Quando però si susseguono gli avvisi della polizia che la ricerca per conto della banda di criminali, uno dopo l'altro gli abitanti di Dogville cambiano atteggiamento nei suoi confronti, vedendo in lei una sconveniente minaccia. Invece di denunciarla o allontanarla, cominciano a sfruttarla costringendola a strenuanti orari di lavoro, fino ad arrivare a legarla come un cane e a stuprarla con disgustosa regolarità.

Diviso in 9 capitoli e un prologo, il film si avvale di una scenografia di stampo teatrale in cui dominano gli spazi vuoti e si alimenta di una struttura narrativa ridotta quasi all'osso che viene puntualmente portata avanti da un narratore onnisciente. La ricchezza del linguaggio utilizzato da quest'ultimo è inversamente proporzionale alla povertà delle immagini: ciò porta ad una inconsueta stimolazione dell'immaginazione di chi guarda che rimanda in parte all'esperienza della fruizione letteraria. Non puntare affatto sulla componente scenografica permette a von Trier, oltre che di demitizzare nelle fondamenta la classica macchina dei sogni hollywoodiana, di concentrarsi sui personaggi e le tetre dinamiche dei rapporti che li legano, portando per mano lo spettatore in un mondo riprovevole, persino assurdo e paradossale nella la sua crudeltà. Fino all'agghiacciante finale. La durata di quasi tre ore in alcuni momenti si fa sentire, ma il cineasta danese riesce nel complesso a costruire un racconto minimalista e disperante di indubbia forza.

venerdì 8 ottobre 2010

"Miami Vice" di Michael Mann


Sullo sfondo di una Miami notturna mai così malinconica e disincantata, due agenti speciali del Miami-Dade Police Department si ritrovano sotto copertura a dover far luce su un importante traffico di droga che parte dal Sud America con destinazione Stati Uniti. Come si può facilmente intuire, la storia non rappresenta niente di nuovo. Eppure Miami Vice è un action movie teso e adrenalinico come pochi nelle ultime stagioni cinematografiche, essendo allo stesso tempo più che solido dal punto di vista narrativo e, a differenza della stragrande maggioranza dei film del suo stesso genere, in grado di mettere in campo con decisione una sua anima di fondo.

Michael Mann infatti, oltre a confermarsi sopraffino regista di sequenze d'azione, non rinuncia neanche questa volta ad indagare l'universo privato e sentimentale dei suoi personaggi. Alcune delle sequenze che narrano il coinvolgimento tra le due coppie protagoniste sono intense e sapientemente intrecciate con l'evolversi della trama principale. Sonny (un Colin Farrell qui particolarmente espressivo) e Rico (il fido Jamie Foxx) sono prima di tutto degli esseri umani, ancor prima che abili e scaltri agenti di polizia. Stranamente questo aspetto “umano”, vera e propria costante della poetica manniana, sembra mancare (o perlomeno non si palesa ai livelli di straordinaria efficacia delle sue opere precedenti) nell'ultimo Nemico Pubblico, il gangster movie uscito lo scorso novembre con protagonista Johnny Depp nei panni di John Dillinger.

In ogni caso, il regista impostosi all'attenzione della critica nel 1986 con Manhunter - Frammenti di un omicidio, è oramai da Heat - La sfida (1995) che porta avanti un personale e definito percorso autoriale che assume i tratti complessi di una vera e propria “missione”: dare profondità e consistenza al film d'azione, attuandone un significativo processo di nobilitazione (oltra al già citato Heat – La sfida e naturalmente a Miami Vice, si pensi anche all'ottimo Collateral). Quando poi negli ultimi anni ha cambiato registro optando per il bio-pic (Alì, 2001) o per il film di denuncia (Insider, 1999), ha almeno nel primo caso sfiorato il capolavoro.

Davvero straordinaria la sequenza d'apertura e, ancor di più, quella magica di chiusura, che trae energia e forza inusitate da un montaggio alternato che presenta un vero e proprio doppio finale confluente infine in uno solo. Sì signori, Michael Mann è l'incontrastato re dei registi dei film d'azione. Di questi tempi purtroppo ce ne sono in giro molti (il primo è il pessimo Michael Bay, da alcuni considerato persino un autore) che fanno dell'azione niente più che confusione e sterile (nonché cattivo) esercizio di regia. Mann è al contrario l'esempio principe delle potenzialità insite oggi in un action movie costruito ad arte e che abbia anche qualcosa da dire. Come muove la macchina da presa il cineasta di Chicago, in perfetta simbiosi con musica (chi non ricorda l'utilizzo della voce di Chris Cornell in Collateral?) e movimento degli attori in scena, non c'è nessun altro. Solo Kathryn Bigelow e James Cameron (con i due Terminator e Aliens – Scontro finale) in questi ultimi anni sono forse riusciti con una certa continuità ad essere alla sua altezza. Felicissimo l'uso del digitale HD (altra “missione” dell'ultimo Mann), che inevitabilmente conferisce all'opera maggiore immediatezza e ruvidezza.

domenica 3 ottobre 2010

"Election" di Alexander Payne

All'epoca dell'uscita questo gioiellino di black comedy fu poco apprezzato dal grande pubblico (sia in Italia che negli Stati Uniti, fatte le debite proporzioni, passò in un numero ristretto di sale), ma riscosse al contrario un ottimo successo di critica, sia in patria che qui da noi. L'allora sconosciuto Alexander Payne, futuro regista di A proposito di Schmidt (2002) e soprattutto dell'ultimo brillante Sideways (2004), si fece infatti notare per la prima volta proprio con Election, commedia nera e satira pungente incentrata sull'oceano che c'è nel mezzo, quando si parla di esseri umani, tra il dire e il fare.
Ambientato in una anonima città come tante altre, Omaha, il film ruota attorno all'universo scolastico della Carver High School, soffermandosi su un evento in particolare: le elezioni del rappresentante degli studenti. Con un approccio frizzante, vivace e trascinante, la narrazione avanza alternando sapientemente i racconti e i punti di vista dei protagonisti/narratori: Jim McAllister (Matthew Broderick), lo stimato professore vincitore per ben tre anni dell'ambito premio per il miglior insegnante dell'anno; Tracy Flick (Reese Whiterspoon), l'ambiziosissima studentessa modello pronta a tutto pur di vincere le elezioni; Paul, lo studente rugbista un po' tonto, ingenuo ma sincero, idolo del liceo per via delle sue gesta sportive, che persuaso dal professore finisce per sfidare Tracy; la sorellastra di Paul, Tammy, giovane omosessuale sensibile e disadattata che si candida all'ultimo in forma di vendetta nei confronti del fratello, reo di averle inavvertitamente rubato la fidanzata.

La singolare forza con cui si sviluppano le diverse linee narrative del film è esemplificata dall'efficacissimo incipit, in cui ci vengono introdotti in modo inventivo e vivace i personaggi principali. E la sistematica discrepanza tra ciò che i personaggi raccontano (il modo in cui vedono se stessi o gli eventi che li riguardano) e quello che invece le immagini mostrano (la realtà delle cose), rappresenta un elemento satirico non certo nuovo ma che mostra con vincente dinamismo come i quattro protagonisti del film siano inevitabilmente diversi (o meglio peggiori) di quanto si dipingono e, spesso, anche di quanto si considerano consciamente. Insomma, tanto di fronte agli altri quanto di fronte a se stesso, ognuno di noi non è mai esattamente quel che dice di essere.
Senza perdere neanche per un attimo ritmo e brillantezza, Election fa leva su uno script eccellente (dello stesso regista in coppia con Jim Taylor, vincitori dell'Oscar per la miglior sceneggiatura non originale per Sideways) e su una regia che con successo cerca di tradurne i risvolti e gli sviluppi in trovate visive intriganti, sempre felicemente funzionali al racconto. Come ha scritto con sintetica efficacia Mereghetti sul suo Dizionario, “la scuola” è vista da Alexander Payne “come metafora delle lotte di potere nel mondo adulto”, ma la sua opera è anche “un'elegia dei perdenti e dei mediocri, sconsolata e quasi disperata, ma sorretta da un'autoironia fulminante e da un umorismo vivacissimo (...) su un fondo di crudeltà e tenerezza che evita le consolazioni e i finti dilemmi (...)”. Con un finale beffardo che, sotto l'apparente scanzonata ironia, cela un sottile pessimismo pronto a scuotere lo spettatore a scoppio ritardato. Da consigliare ad occhi chiusi a chi non ha ancora avuto l'occasione di vederlo. Per molti aspetti, l'anti-Juno.