Dopo Dogville, eccoci scrivere del secondo capitolo della trilogia sugli Stati Uniti d'America pensata da von Trier e che dovrebbe concludersi con Wasington, da molto tempo annunciato ma ancora sostanzialmente avvolto nel mistero.
1933. Grace, in compagnia del padre con il suo fido gruppo di gangster, torna a Denver per scoprire che il potere nella città è ormai in mano ad altre bande criminali. Il padre/boss decide allora di muoversi per l'America alla ricerca di una località nella quale stabilirsi con la forza. Durante una sosta davanti alla piantagione di Manderlay, però, Grace viene fermata da una donna di colore che la prega di aiutarla, denunciando la condizione sua e dei propri compagni di lavoro, trattati ancora come schiavi dai proprietari della tenuta. Da qui parte il film e comincia a svilupparsi il personale e per nulla scontato discorso di von Trier su uno dei momenti cardine della storia americana: la schiavitù dei neri e, più ad ampio raggio, la questione razziale.
Parlando di Manderlay non si può prescindere da considerazioni di carattere estetico. Fin da subito infatti colpiscono quella serie di strategie della messa in scena attuate già nel precedente Dogville: luci che cambiano d'intensità in modo anche brusco tra inquadrature contigue, illuminazione marcatamente teatrale, grandi spazi vuoti e spettrali su sfondo nero nel contesto di una scenografia che definire “povera” o minimalista è un eufemismo. Lo stile è nervoso (continui zoom, cambiamenti di fuoco improvvisi, movimenti di macchina costanti e irrequieti) e il numero di inquadrature molto elevato: a dispetto delle apparenze ci troviamo agli antipodi di quello che si potrebbe definire un teatro filmato. Piuttosto si può parlare di un cinema estremamente teatralizzato e stilizzato negli elementi scenografici.

Tutti questi elementi fanno sì che l'enfasi sia posta sui personaggi, le loro parole e i loro sguardi. Superate le iniziali difficoltà dovute al fatto di assistere a qualcosa che è molto lontano dalle consuete esperienze cinematografiche, lo spettatore è messo nella condizione di appassionarsi all'insolito mondo tratteggiato da von Trier, stimolato in maniera particolare dalla presenza della voce narrante che spesso fornisce con le parole quei dettagli scenografici negati sul piano visivo. Consapevole dell'inevitabile falsità del cinema, il cineasta danese si sforza di farla emergere quanto più possibile. E non è certo un caso se il film inizia con l'esplicita didascalia “Il film Manderlay è raccontato in otto capitoli”, o se l'ultimo capitolo si chiama “Alla fine Grace fa i conti con Manderlay e il film ha termine”.
Davvero ottima l'interpretazione di Bryce Dallas Howard, riuscita nell'impresa di sostituire più che degnamente Nicole Kidman nel ruolo di Grace. Non è affatto scontato che un cinema di questo tipo piaccia. Ma può rivelarsi estremamente affascinante per chi ha la pazienza e la voglia di lasciarsi andare e mettersi un po' in gioco.