La trama, come d’altronde Anderson ci ha abituati fin dal suo esordio cinematografico, è poco più di un canovaccio: Francis Whitman, reduce da un terribile incidente motociclistico e rimasto vivo per miracolo, organizza un atipico viaggio in treno (il “Darjeeling Limited” a cui si rifà il titolo originale) attraverso l’India per sé ed i suoi due fratelli, Jack e Peter, nel tentativo di recuperare con loro quel rapporto interrottosi dal giorno della morte del padre, avvenuta l’anno precedente. In questo viaggio, durante il quale emergeranno tutte le loro problematiche (sia personali che interpersonali), impareranno faticosamente a fidarsi l’uno dell’altro, incontreranno di nuovo la madre e forse capiranno qualcosa in più su loro stessi e sulle rispettive vite. Al centro del nuovo film di Wes Anderson – come d’altronde in tutti i suoi lavori precedenti – interagiscono persone profondamente segnate dal dolore, dalla mancanza di importanti figure familiari di riferimento e da pressanti desideri inappagati, tutte figure in balia della sorte, spesso senza prospettive definite e alla disperata ricerca di comprensione, redenzione e, nel caso di quest’ultima pellicola, spiritualità.
Il topos del viaggio, come ricerca di sé e tentativo di recupero del rapporto con l’altro, viene affrontato da Wes Anderson con encomiabile umanità e grande sensibilità d’animo, senza rinunciare alla consueta agrodolce ironia: ed è proprio questo particolare e delicato approccio alle disavventure emotive dei protagonisti e ai loro problemi familiari ed esistenziali, a fare della pellicola un’opera del tutto singolare, nonostante il soggetto sia uno dei più presenti nell’immaginario cinematografico statunitense e mondiale.
Ne Il treno per il Darjeeling il giovane regista americano danza sublimemente – con un garbo ed una grazia assolutamente unici e con la soave malinconia propria dei poeti – sulle sofferenze, le angosce e le insicurezze dei tre fratelli Whitman, senza ostentarle e palesarle, ma facendole emergere lentamente da un mirabile e “scientifico” (in quanto chiaramente premeditato e ben studiato) composito di dialoghi, atteggiamenti, dettagli, immagini e suoni. In tal modo il regista, soprattutto in sede di sceneggiatura, nella quale è stato coadiuvato dai co-sceneggiatori Jason Schwartzman e Roman Coppola, gioca abilmente e assai fruttuosamente con il non-detto, lasciando il passato dei protagonisti quasi completamente all’immaginazione dello spettatore, che può solamente tentare di ricostruirlo interpretando ciò che rivela il presente filmico. Come sempre la colonna sonora (composta anche da musiche indiane riarrangiate e prese da pellicole di Satyajit Ray, il più importante regista indiano di tutti i tempi) ha un’importanza capitale, accentuando numerose volte quell’atmosfera surreale, tragicomica, eternamente sospesa tra ironia giocosa e malinconia, che avvolge l’intera opera andersoniana ed in particolar modo questo suo ultimo lavoro.
Senza ombra di dubbio con Il treno per il Darjeeling Wes Anderson si conferma, oltre che eccellente regista e direttore di attori (Owen Wilson nei suoi film fornisce sempre interpretazioni di un certo rilievo), un ottimo sceneggiatore, in grado di delineare con sapienza e in profondità personaggi sempre convincenti. Eccezionale la trovata legata ai titoli di coda, con la macchina da presa posizionata a fianco del “Darjeeling Limited” che continua a viaggiare lentamente lungo le rotaie e con il sottofondo musicale del leggiadro brano Les Champs-Elysées, che nello specifico contesto del film diviene una sorta di gioioso ed esaltante inno alla vita. Insieme a I Tenenbaum, il lungometraggio più sfaccettato, riuscito e maturo di Wes Anderson.
Articolo pubblicato nel numero 3 di Cinem'Art (Maggio 2008)
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