Quando si pensa al cinema degli anni d'oro di Woody Allen (in particolare quello degli anni '70 e '80), la mente non può che soffermarsi sul suo appassionato, viscerale, genuino rapporto con New York, dove è nato, cresciuto e tuttora vive. È nella Grande Mela, infatti, che l'autore statunitense di origine ebrea ha girato alcuni dei suoi film più importanti e riusciti. Con l'uscita nelle sale del suo ultimo lavoro Basta che funzioni (Whatever Works il titolo originale), il quasi settantaquattrenne cineasta è tornato a parlare della sua adorata città natale dopo le ultime parentesi europee di Match Point, Scoop, Sogni e delitti e Vicky Cristina Barcelona.
Parlando del rapporto simbiotico tra Allen e New York è impossibile non soffermarsi su una delle pellicole maggiormente significative della sua filmografia, quel Manhattan del 1979 che si pone ancora oggi come la sua più esplicita dichiarazione d'amore (a tratti fortemente malinconica) a New York, nonché come una delle prove più convincenti della propria carriera, tanto dal punto di vista della costruzione dei dialoghi e della sceneggiatura, da sempre autentico cavallo di battaglia di Allen, quanto da quello della messa in scena.
Isaac è un noto autore comico del piccolo schermo che ha in cantiere un romanzo dalla forte matrice autobiografica. Viene da due matrimoni rivelatisi dei tragici fallimenti e al momento ha un'inconsueta relazione con una diciassettenne che sogna di fare l'attrice. Quando però il suo amico Yale, sposato da molti anni, decide di chiudere la storia con l'attraente amante Mary (Diane Keaton), Isaac se ne innamorerà perdutamente riuscendo naturalmente a complicarsi ulteriormente la vita.
Allen, da molti definito come un intellettuale prestato al cinema, non si nasconde e scopre subito le carte. Il bellissimo breve prologo del film è composto da una serie di inquadrature fisse, dei dettagli, delle suggestive cartoline in movimento della Grande Mela: si vedono grattacieli che svettano fieramente nei cieli, strade e vicoli affollati, Broadway, Central Park, una Times Square brulicante di luci, fino ad uno skyline notturno con tanto di fuochi d'artificio. Dopo questo incipit fortemente contestualizzante inizia il vero e proprio film, all'interno del quale, come sempre, prendono vita quei tipici personaggi di stampo alleniano nevrotici, confusi e persi, che loro malgrado si cacciano in situazioni sentimentali complicate e dalle prospettive nebulose. Finendo poi per fare del male a se stessi e a chi li circonda.
Questa volta però, come era d'altronde avvenuto anche due anni prima con Io e Annie, il regista newyorchese, pur facendo ampiamente ricorso alla sua caratteristica verve e al proprio trascinante sarcasmo, vira decisamente verso il registro malinconico nell'analizzare il rapporto di coppia da una prospettiva introspettiva e psicoanalitica. Parafrasando il titolo del film collettaneo girato nel 1989 dallo stesso Allen insieme a Scorsese e Coppola, in Manhattan ci vengono presentate delle semplici new york stories dalle quali, sullo sfondo di una città di cui con forza si decantano bellezza e unicità, emerge un'umanità che non sa smettere di ingarbugliarsi nei più svariati modi l'esistenza. E che, come dice in conclusione il protagonista Isaac con malinconica ironia e in un momento di pressante sconforto, “si crea costantemente dei problemi veramente inutili e nevrotici perché questo le impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi universali”.
Come si accennava in precedenza, Manhattan è anche una delle opere alleniane più interessanti dal punto di vista stilistico e della messa in scena, essendo un film davvero intrigante e ammaliante anche solo sul piano estetico. Come non citare, a tal proposito, lo straordinario uso del bianco e nero (eccellente il lavoro del direttore della fotografia Gordon Willis) che permette al cineasta di giocare in modo particolarmente efficace con il contrasto chiaroscurale dato dall'alternanza di luci ed ombre. Molto ispirata è poi la sequenza che segna la nascita del coinvolgimento tra Isaac e Mary, bizzarramente ambientata all'interno di un planetario in cui i due capitano casualmente per ripararsi da un vigoroso acquazzone: facendo una passeggiata lungo il sistema solare, impareranno a stimarsi vicendevolmente e forse ad iniziare ad amarsi. In questo contesto non si può non fare anche un breve cenno ai meravigliosi carrelli “a precedere” con cui vengono riprese le numerose camminate per i marciapiedi e per le strade newyorchesi dei vari personaggi, che con il loro movimento fluido assecondano in maniera mirabile la verbosità irrefrenabile e inquieta dei protagonisti del film.
Definita felicemente da Mereghetti nel suo Dizionario dei film come “una commedia nevrotico-crepuscolare”, l'opera colpisce in realtà anche per come si presenta gravida di passione, oltre naturalmente che per New York, per la vita nel suo complesso. Nonostante spesso faccia male, sembra dirci in fin dei conti Allen, la vita è comunque un qualcosa che vale decisamente la pena di essere vissuta. Con slancio, partecipazione e consapevolezza degli inevitabili e periodici alti e bassi.
Articolo precedentemente pubblicato su www.moviesushi.it
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