Che ci aspettavamo molto da Shutter Island lo avevamo già scritto nella rubrica “Stars & Stripes” del numero 17. Quando un autore di un certo spessore sente il bisogno di cimentarsi con atmosfere riconducibili all’horror, generalmente è lecito attendersi un’opera complessa che vada oltre la superficie della trama, per presentare in maniera più o meno evidente, a seconda dei casi, un composito e profondo tessuto metaforico capace di far riflettere sulla società e sul mondo che ci circonda. Non è certo un mistero, infatti, che con La notte dei morti viventi (1968) per la prima volta si siano palesate in tutta la loro potenza, nel genere horror, le enormi possibilità espressive del sottotesto. In tal senso, l’esempio più alto nella storia del cinema è Shining (1980) di Stanley Kubrick, che a sua volta sempre nel 1968 con 2001: Odissea nello spazio aveva condotto, nell’ambito del genere fantascientifico, un’operazione molto simile a quella di Romero, aprendo la science fiction cinematografica ad orizzonti fino a quel momento impensabili. Shutter Island certamente non va in questa direzione: le sue ambizioni sono ben più contenute ma, come cercheremo di argomentare, è comunque da considerarsi un eccellente film di genere, in grado di riportare ai fasti delle produzioni hollywoodiane degli anni quaranta o cinquanta. L’opera di Scorsese – la cui uscita nei cinema, inizialmente prevista per ottobre dello scorso anno, è stata posticipata in tutto il mondo di cinque mesi per mancanza di liquidità della Paramount e per l’indisponibilità di DiCaprio nel partecipare alla promozione del film – proprio come Shining non è direttamente ascrivibile al genere horror, tuttavia, però, rimanda chiaramente agli oscuri e labirintici meandri della mente umana. Trovando nella scenografia di Dante Ferretti e nella fotografia di Robert Richardson (entrambi collaboratori di lungo corso di Scorsese) degli evidenti punti di forza.
Tratto dall’omonimo best-seller del 2003 di Dennis Lehane (autore anche di Mystic River, il cui adattamento cinematografico ha portato al grande film di Clint Eastwood), Shutter Island è ambientato nel 1954 in un’isola al largo di Boston su cui sorge un imponente ospedale psichiatrico per criminali psicopatici. Teddy Daniels, agente federale di una certa fama e veterano della seconda guerra mondiale (Leonardo DiCaprio), si reca in loco in compagnia del collega Chuck Aule (Mark Ruffalo) per indagare sul misterioso caso di Rachel Solando, una paziente scomparsa senza aver lasciato dietro di sé alcuna traccia della fuga. La struttura in cui sono rinchiusi i pazienti è divisa in tre padiglioni (uno riservato agli uomini, uno alle donne, l’altro ai soggetti più pericolosi) ed è gestita dal dottor Cawley (Ben Kingsley) e dal sinistro dottor Naehring (Max von Sydow), figure che fin dall’inizio si rivelano piuttosto ambigue, dando in più occasioni la sensazione di non avere alcun interesse nell’agevolare il lavoro dei due agenti. Con il procedere delle indagini, il mistero si infittisce sempre di più e Teddy, oltre a sospettare che l’ospedale sia in realtà una copertura per dei macabri esperimenti sul cervello dei pazienti, inizia persino a dubitare del proprio collega.
Il film è stato accolto dalla critica nordamericana e italiana in maniera pressoché tiepida. Ci sono stati anche dei critici importanti che lo hanno apprezzato moltissimo (più avanti ne citeremo uno statunitense), ma la maggioranza è stata concorde nel sottolineare come il film perda progressivamente in incisività e coerenza con il passare dei minuti, smarrendo così il bandolo della matassa proprio nel momento cruciale in cui comincia ad addentrarsi nel cuore del racconto filmico. Al contrario, a nostro avviso, Shutter Island è un thriller con evidenti e stimolanti venature horror e noir, in cui le convenzioni di ognuno di questi generi riescono a convivere in maniera assai felice per tutto l’evolversi delle vicende diegetiche. Ciò avviene in primis grazie a due elementi decisivi: la solida e calibrata sceneggiatura di Laeta Kalogridis, molto abile nella gestione di cambi di ritmo, momenti di suspense e colpi di scena nonostante le sue prove precedenti (Alexander di Oliver Stone e Pathfinder – La leggenda del guerriero vichingo) non avessero convinto granché; la regia impeccabile di Scorsese, che riesce in ogni momento ad assecondare perfettamente i risvolti narrativi, affascinando lo spettatore e accompagnandolo sapientemente per l’intera durata della pellicola.
Teso, coinvolgente e girato con la maestria che ormai da decenni contraddistingue il suo navigato regista, Shutter Island tuttavia, nonostante sia magnificamente confezionato e possa essere considerato senza riserve al livello dei lavori dell’ultimo Scorsese (da Gangs of New York in poi), non asseconda quella che probabilmente era la speranza di molti cinefili. Difatti, che il celebre cineasta italo-americano fosse in grado di trarre dall’avvincente romanzo di Lehane una pellicola ineccepibile sul piano della costruzione narrativa ed estremamente stimolante dal punto di vista figurativo e della messa in scena, lo si poteva anche dare per scontato. Ciò che con ogni evidenza manca al lavoro di Scorsese è proprio quel sottotesto allegorico di cui si parlava in riferimento a Shining e La notte dei morti viventi. Per quanto Todd McCarthy sia indiscutibilmente uno dei più rilevanti e rispettati critici statunitensi, la sua affermazione secondo la quale Shutter Island occuperebbe nella filmografia di Scorsese la medesima posizione ricoperta da Shining nell’opera di Kubrick, ci sembra palesemente esagerata e ben poco condivisibile. Anzi, una delle poche stonature che emergono dallo script del film, appare proprio legata a quello che sembra un incomprensibile tentativo, isolato e mai più ripreso nel prosieguo della narrazione, di rimandare al capolavoro di Kubrick: quando Teddy Daniels e il partner Chuck Aule entrano per la prima volta nell’edificio in cui dimora il dottor Cawley, questi li informa del fatto che la struttura, così come il padiglione C in cui sono internati i pazienti più pericolosi, è stata costruita all’epoca della guerra civile. L’assonanza con ciò che viene detto a Jack Nicholson all’inizio di Shining sull’Overlook Hotel, le cui fondamenta erano state erette su un villaggio indiano distrutto, non sembra casuale. Anche se l’affermazione del dottor Cawley, inserita un po’ pretestuosamente (almeno è questa l’impressione che abbiamo avuto dopo la prima visione), non si materializza in alcun modo come un invito a leggere la struttura profonda del film, nel caso di Shutter Island pressoché inesistente.
Ad ogni modo, Scorsese con questa sua ultima fatica ci regala senza dubbio un ottimo film di genere, in cui, come già si accennava in precedenza, elementi tipici del noir (il protagonista dal passato tormentato alle prese con un caso che lo mette a dura prova) e dell’horror (il penitenziario colmo di criminali psicopatici, l’ambientazione costantemente cupa e minacciosa) si fondono felicemente all’interno di un thriller coinvolgente e sostanzialmente privo di falle; il cui tallone d’Achille è, forse, quello di essere fin troppo prodigo in spiegazioni conclusive, non lasciando assolutamente nulla all’immaginazione dello spettatore. In ogni caso, è necessario sottolineare che tale scelta è in fondo totalmente coerente con la natura della pellicola, caratterizzata com’è da un forte legame con il tradizionale cinema di genere, tendenzialmente poco incline a finali aperti a più interpretazioni. Davvero molto interessante il personaggio offerto a Leonardo DiCaprio, sempre più attore feticcio di Scorsese (è ormai alla quarta collaborazione consecutiva) e qui alle prese con un tipo di ruolo che nella storia del cinema hollywoodiano raramente è stato ricoperto da una star di prima grandezza.
Articolo pubblicato nel numero 20 di Cinem'Art (Marzo-Aprile 2010)
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