lunedì 12 aprile 2010

The Hurt Locker: Kathryn Bigelow e l'immersione ai tempi del 2D


Kathryn Bigelow non è certo una cineasta prolifica. The Hurt Locker (2008) interrompe infatti un’assenza dagli schermi che durava da K-19 (2002), e in tutta la sua attività registica ha diretto solo 8 film in 26 anni, stabilendo una media di anni passati per ogni singolo film forse seconda solo a quella di Terrence Malick e Stanley Kubrick. In genere i suoi sono sempre lavori molto pensati, di grande caratura e, quando è in forma particolare, è in grado di realizzare pellicole indimenticabili (vedi alla voce Strange Days, opera del 1996 a cui si sono interessati un gran numero di studiosi di cinema e che viene mostrata in molti corsi universitari). Prendendo spunto dal reportage del giornalista Mark Boal (che ispirò Paul Haggis per l’ottimo The Valley of Elah), The Hurt Locker mostra con crudo e affascinante realismo la vita quotidiana di alcuni membri del team speciale americano antibombe, impegnato ogni giorno in Iraq nel tentativo di disinnescare le migliaia di ordigni esplosivi lasciati dai ribelli locali.
Il film è diviso in episodi (introdotti da una didascalia che informa progressivamente sul numero di giorni mancanti alla rotazione della squadra) che corrispondono a delle azioni del team sui luoghi in cui viene richiesto il loro intervento. A differenza di Haggis, la Bigelow sceglie di romanzare il meno possibile il materiale messole a disposizione dall’inchiesta giornalistica: lo spettatore assiste a quanto accade ai componenti della “Bravo Company” avendo la sensazione di essere anch'egli presente sul posto, vivendo profondamente le loro stesse emozioni e quindi immergendosi completamente nella loro tragica esperienza quotidiana. In cui la morte è sempre dietro l'angolo.
L'obiettivo che si pone la cineasta statunitense è quello di riportare il più fedelmente possibile (non a caso per la stesura dello script ha voluto lo stesso Boal) momenti della vita di guerra di questi soldati, sottolineando così l’assurdità della guerra limitandosi al semplice atto di mostrarla. In tal modo affronta il tema bellico con un’umanità e una profondità particolarissimi, facendo entrare di diritto The Hurt Locker tra le migliore pellicole di guerra mai girate. Questo approccio diaristico, che a causa della sua ridondanza potrebbe spiazzare più di qualcuno, ci sembra dunque essere un notevole punto di forza del film, che riesce egualmente ad appassionare e ad incollare alla poltrona chi guarda per tutta la sua durata, letteralmente senza un attimo di pausa. La Bigelow si conferma eccellente direttrice di sequenze d’azione (chi non ricorda le sequenze dello “SQUID” in Strange Days o i piani sequenza di Point Break e K-19?) e propone fin dall’incipit, straordinario per pathos e messa in scena, una regia mobilissima, virtuosa, nervosa, composta da movimenti di macchina secchi ed improvvisi, riprese con macchina a mano, stacchi frequentissimi (davvero non si conta il numero di inquadrature utilizzate). Ottenendo così l’encomiabile risultato di rendere lo spettatore estremamente partecipe di quanto succede, quasi portandolo fisicamente, di peso, al fianco dei soldati.
La sensazione netta è quella di assistere ad un film di grande importanza per come si avvicina a mostrare l’esperienza della guerra e, al contempo, di ammirare una vera e propria lezione di regia. Degna di un maestro. D’accordo, l’esperimento 3D allestito da James Cameron in Avatar è meraviglioso, un’orgia empatica sotto molti aspetti senza precedenti. Ma attenzione a gridare al passaggio epocale e a sottovalutare, dandola per spacciata, quella bidimensionalità che fino ad oggi ha fatto dell’espressione cinematografica una matura e potente forma espressiva: come dimostra The Hurt Locker, si può “immergere” e “avvolgere” lo spettatore anche a colpi di 2D e pellicola. Con risultati eccelsi.

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