giovedì 10 giugno 2010

Capitalism: A Love Story. Il capitalismo secondo Michael Moore


Nell’arco della sua attività di film-maker ha descritto con estrema crudezza le terribili conseguenze sulla sua città nativa delle migliaia di licenziamenti operati dalla Roger Motors (Roger&Me), l’onnipotente e sporco potere delle lobbies delle armi (Bowling for a Columbine) e delle assicurazioni sanitarie (SiCKO) negli Stati Uniti, le sanguinose bugie dell’amministrazione Bush dopo l’11 settembre (Farenheit 9/11). Questa volta l’irriverente Michael Moore, con il brillante Capitalism: A Love Story, se la prende con banche e signori della finanza, rei di avere affossato l’economia nordamericana arricchendosi grandemente e facendo di milioni di americani dei disperati senzatetto.
L’intera opera del regista nato nel 1954 a Flint (Michigan) è costantemente volta a demolire le fondamenta del celeberrimo Sogno Americano, non disdegnando mai il periodico ricorso ad un’irresistibile ironia tendente alla sdrammatizzazione. Roger & Me (1989), Bowling for Colombine (2002), Farenheit 9/11 (2004), Sicko (2007) in fondo, pur partendo dall’analisi di problematiche diverse tra loro, evidenziano come negli Stati Uniti, di gran lunga ancora il paese più potente del mondo, ci sia una profonda frattura nel tessuto sociale e come l’élite economica e delle lobbies, tutta tesa al perseguimento di quell’imperativo categorico che è la massimizzazione dei profitti, esacerbi drasticamente questa situazione e condizioni profondamente la vita del popolo americano, calpestandone meschinamente dignità e diritti.
Capitalism: A Love Story risulta essere pienamente dentro questo discorso e, prima di ogni altra cosa, è soprattutto un gran bel film, pieno di efficaci ed esilaranti invenzioni. Tra le tante: il montaggio alternato che in apertura paragona l’impero romano in declino all’attuale situazione statunitense, facendo ricorso a estratti di un vecchio film hollywoodiano sull’Antica Roma; l’immagine di un cane di piccola taglia che tenta insistentemente di addentare qualcosa da un tavolo, proposta da Moore mentre descrive l’ostinata attitudine tutta americana a continuare testardamente a credere nel Sogno Americano e nella possibilità di poter, prima o poi, divenire ricchi; il parallelismo tra la logica alla base dei subprimes e il prestito mafioso.
Il quadro che emerge della società statunitense da questa lucida analisi della crisi del capitalismo è a dir poco agghiacciante. Eppure Moore, nell’ultima straordinaria parte del film, si lascia andare come mai aveva fatto finora alla speranza per un futuro migliore. Mostrando alcune storie di operai che, poco dopo l’elezione di Obama, hanno ottenuto la riassunzione dopo aver trovato la forza di ribellarsi in gruppo all’ingiusto licenziamento, il cineasta auspica una nuova stagione politico-sociale per gli Stati Uniti, augurandosi che l’ex senatore dell’Illinois possa finalmente realizzare quel progetto di equità, giustizia e democrazia che Roosvelt un anno prima di morire, nel lontano 1944, aveva promesso ai nordamericani.

Ultimo accenno alla geniale sequenza che anticipa i titoli di coda: Moore si presenta a New York, davanti a numerose sedi dei colossi finanziari responsabili del disastro economico, per affiggere all’entrata la tipica transenna da poliziesco hollywoodiano con la scritta “Crime Scene, Do Not Cross This Line” .

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