mercoledì 2 novembre 2016

Il passato non è una terra straniera. Intervista a Gianclaudio Cappai, il regista di "Senza lasciare traccia"

In un torrido pomeriggio romano, Gianclaudio Cappai ci ha parlato di Senza lasciare traccia, il suo interessante esordio dietro la macchina da presa uscito nei cinema a metà aprile.


Dopo un cortometraggio vincitore al Festival di Torino del concorso dedicato al cinema breve (Purché lo senta sepolto, 2006) e un'opera di finzione di trenta minuti presentata nella sezione “Corto Cortissimo” della 66a edizione del Festival di Venezia (So che c'è un uomo, 2009), Gianclaudio Cappai lavorava da qualche anno alla realizzazione del suo primo lungometraggio. Senza lasciare traccia conferma il talento per la messa in scena del quarantenne regista sardo e si avvale di un cast affiatato e di ottimo livello composto da Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich e Fabrizio Ferracane.
Prodotta dalla società fondata nel 2009 dallo stesso regista e sceneggiatore, la Hira Film, l'opera prima è ambientata in una località rurale in provincia di Lodi e affronta i tormenti di un giovane uomo che improvvisamente si ritrova immerso nei meandri del proprio passato. Perché come scriveva Shakespeare ne Il mercante di Venezia, le cui parole sono state poi riprese al cinema in Magnolia nel 1999, “possiamo chiudere con il passato, ma il passato non chiude con noi”.

Tutti i tuoi lavori ruotano attorno a traumi che condizionano pesantemente il presente dei protagonisti. Cos'è che ti interessa nello sviluppare questo tema?

In effetti Senza lasciare traccia può essere considerata l'ultima parte di una trilogia che ha come focus proprio quanto hai appena detto. Di sicuro c'è da parte mia l'interesse di indagare il modo in cui la malattia influenza non solo chi ne è affetto, ma anche coloro che gli vivono vicino. Rispetto alle mie due opere precedenti, in questo film ho cercato di focalizzarmi sulla percezione soggettiva del protagonista: Bruno infatti si convince che il suo tumore sia strettamente collegato a un passato traumatico che non ha mai raccontato a nessuno. In fase di scrittura, con la co-sceneggiatrice Lea Tafuri eravamo molto intrigati da questo spunto narrativo, ispirato all'esperienza personale di una nostra amica. Era necessario però inserirlo all'interno di una drammaturgia di finzione e così abbiamo cercato di sviluppare un percorso a ritroso nel passato di Bruno, come fosse una sorta di viaggio esistenziale nell'arco di una sola giornata.


Proprio a proposito della struttura del film, alcuni passaggi tra le dimensioni del passato e del presente sono molto suggestivi. Era già tutto preventivato in fase di scrittura?

In questo contesto la fase di montaggio è stata fondamentale. In sceneggiatura i flashback erano molto più descrittivi e carichi di informazioni sul passato (era molto più chiaro il rapporto di inquietante complicità tra la bambina e il fuochista, così come il passato di Vera e del padre) e si concentravano nella parte iniziale. Al montaggio poi li abbiamo asciugati e frammentati lungo tutto l'arco del film. Il racconto più dettagliato del passato aveva certamente i suoi punti di forza, ma toglieva mistero ai personaggi ed efficacia allo sviluppo narrativo in termini di coinvolgimento emotivo. Così con Lea e il montatore Alessio Doglione abbiamo scelto di andare in questa direzione confidando nel fatto che sarebbe stato il pubblico, seguendo il percorso di Bruno, a mettere a posto i vari tasselli del puzzle. In tal modo credo che il film sia divenuto più enigmatico, rarefatto e interessante.

Sul piano visivo Senza lasciare traccia ha l'indubbia capacità di creare una costante atmosfera di tensione. Come hai lavorato sulla messa in scena e a che tipo di estetica cinematografica ti sei ispirato?

Dal punto di vista visivo ero alla ricerca di qualcosa che mi ricordasse la New Hollywood statunitense degli anni Settanta. Il mio punto di riferimento era il cinema di registi come Robert Altman o Michael Cimino. Alcuni tra i primi lavori di questi due registi – per Altman penso soprattutto a Images, Il lungo addio e Tre donne – presentano storie molto potenti che fanno leva su una notevole messa in scena, rigorosa ma allo stesso tempo fluida, mobile e soprattutto furtiva. Da questi film per esempio abbiamo preso l'attitudine all'utilizzo di focali lunghissime per le riprese. Adottando uno stile del genere volevo affinare ed esplorare in maggiore profondità una serie di scelte espressive cui avevo già fatto ricorso nei miei precedenti lavori.


Sei riuscito a produrre il film con la tua società, senza l'aiuto di altri produttori. Come ci sei riuscito?

Dopo aver rinunciato ad alcuni progetti più costosi a causa del mancato accordo con dei produttori, per questo film avevamo dei punti su cui non transigevamo e che sapevamo avrebbero infastidito i nostri interlocutori: girare fuori Roma per sfruttare le location più adatte, realizzare il film in 16 mm e in non meno di sei settimane. Di conseguenza, occuparci della produzione è divenuta l'unica via ed è stato possibile grazie all'ottenimento di finanziamenti provenienti dalla Regione Lombardia e da altri bandi. Trovare i soldi è stato senz'altro complicato, ma in questi casi non è da sottovalutare neppure la difficoltà nell'individuare un arco di tempo in cui il cast artistico su cui si vuole puntare sia disponibile. Può forse sembrare assurdo, ma spesso i film slittano e poi non si fanno più proprio per questo motivo. Appena abbiamo potuto contare sulla disponibilità di tutti gli attori principali siamo così partiti con la preparazione del film, anche se avevamo a disposizione meno della metà del budget necessario. Durante la preparazione poi abbiamo continuato parallelamente la ricerca dei fondi. Alla fine è andato tutto bene e questo doppio binario ha funzionato in maniera perfetta.


Hai già in mente quale sarà il tuo prossimo film?

In questi mesi sono ancora impegnato ad accompagnare Senza lasciare traccia in tutte le città in cui viene richiesto. Per ora non riesco a isolarmi per mettermi al lavoro su un nuovo film, ma dopo l'estate c'è tutta l'intenzione di farlo. Ho comunque già iniziato a pensare a degli spunti che potrebbero diventare un argomento di discussione con altri sceneggiatori e, in particolare, ho individuato un tema che mi intriga moltissimo. Rispetto all'esperienza fatta con il mio primo lungometraggio vorrei però trovare qualcuno che sostenga il progetto fin dall'inizio. Scrivere un soggetto e una sceneggiatura senza avere già alle spalle un produttore, infatti, crea poi difficoltà inaudite nel far partire la realizzazione del film.  

Articolo pubblicato nel numero 15 di Fabrique du Cinéma (Autunno 2016)


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