In attesa dell’uscita nei cinema di venerdì di Diaz (la recensione potete leggerla scorrendo sotto nella home page o cliccando qui), vi propongo la mia vecchia recensione de Il passato è una terra straniera, che vidi in occasione della presentazione del film nella selezione ufficiale del festival di Roma edizione 2008 (anno in cui questo blog ancora non esisteva). Rileggendo la recensione, sono rimasto piuttosto sorpreso dal fatto che alcuni dei limiti più evidenti del penultimo lavoro di Vicari siano pressoché gli stessi ravvisabili in Diaz, e ho pensato così che potesse essere interessante pubblicarla su Cinemagnolie.
Tratto dall’omonimo libro di Gianrico Carofiglio, il film narra la progressiva discesa nel vortice di vizi, disonestà e criminalità di Giorgio (Elio Germano), un giovane studente modello di giurisprudenza a cui manca un solo esame per laurearsi. La vita del ventiduenne cambia drasticamente in seguito al fortuito incontro con l’affascinante e ambiguo Francesco (Michele Riondino), ragazzo estremamente abile nel manipolare le carte da gioco che si guadagna da vivere barando a poker nelle bische clandestine di Bari. Giorgio si farà attrarre sempre più dalle attività illegali del nuovo amico, lasciandosi sedurre dalla facilità con cui egli riesce a fare soldi senza faticare, nonché dalla sua vita adrenalinica, eccitante e priva di responsabilità.
Pur essendo un film discretamente confezionato e mai noioso, vivace quanto basta dal punto di vista registico per stimolare l’interesse dello spettatore, il film è troppo superficiale nella descrizione del coinvolgimento di Giorgio nelle attività di Francesco e in particolar modo nell’approfondimento psicologico dei personaggi.
Vicari descrive in modo freddo e distaccato un certo mondo in cui non v’è parvenza alcuna di morale, etica o rispetto delle regole civili (non a caso la regola principe osservata da Francesco ha a che fare con il cinico dogma secondo il quale nella vita bisogna “fottere prima di essere fottuti”), senza giudicare ma anche senza il rigore e la complessità che in casi di questo tipo sarebbero necessari – si pensi ad esempio, senza voler assolutamente introdurre un inopportuno paragone tra due film diversissimi tra loro, alla glaciale ed efficacissima “oggettività” del Gomorra di Garrone.
Il mondo delle bische clandestine in cui vince chi è più bravo a barare vuole sì essere un simbolo (non originale tra l’altro) della realtà di tutti i giorni, ma ciò non è certo sufficiente a dare spessore e profondità al racconto: il film, che si spinge un po’ oltre, in modo non così scontato, nella rappresentazione della violenza, soffre in particolare per la mancanza di un progetto chiaro alla propria base (se c’è di certo non emerge), facendo inoltre affidamento su diversi clichés piuttosto banali (la ragazza spagnola che si concede facilmente, l’immancabile flirt con donna matura, sposata e disinibita) che sembrano essere inseriti appositamente per compiacere il vasto pubblico giovanile. La struttura temporale a cui si fa ricorso non trova poi una solida giustificazione sul piano narrativo, se non quella di cercare nel modo più semplice possibile di catturare fin dall’inizio l’attenzione dello spettatore. Molto convincenti sono invece le interpretazioni dei due protagonisti principali – se Elio Germano è da Mio fratello è figlio unico una sicurezza, Michele Riondino sorprende per come si trova a suo agio nel ruolo del ragazzo simbolo di una “gioventù bruciata” –, che costituiscono probabilmente l’elemento più positivo dell’intera pellicola.
Articolo precedentemente pubblicato, in una versione in parte differente, su cinemartmagazine
Nessun commento:
Posta un commento