Scritta, diretta e persino prodotta da Simone Bartolini, la dura e tesa opera prima racconta la parabola di un piccolo spacciatore sperduto in una Roma senza pietà, come il sound che ritma la sua caduta.
Fin
dal potente titolo che rimane subito impresso, il lungometraggio d’esordio del
trentenne Simone Bartolini evoca un mondo cupo che non lascia nessuno spazio a
possibilità di redenzione: «privo di luce», come dichiara senza giri di parole lo
stesso regista. D’altronde, se si vuole raccontare il dramma della tossicodipendenza,
non è possibile scegliere un approccio consolatorio. Girato quasi completamente
con macchina a mano e interpretato in gran parte da attori non professionisti (con
le sole eccezioni di Nina Torresi e Danilo Nigrelli), Le formiche della città morta narra la metaforica discesa negli
inferi di uno spacciatore di eroina che, nell’arco di ventiquattro angoscianti ore,
deve disperatamente trovare i soldi necessari a saldare un debito.
Ciò che più
di ogni altra cosa colpisce dell’opera prima – ambientata in una Roma indifferente
alle sofferenze dei personaggi che la abitano e assai lontana da quella
abitualmente mostrata al cinema – è la capacità di mettere in campo uno sguardo
oggettivo in grado di mostrare la vita del protagonista senza mai giudicarlo,
riuscendo al contempo a metterne in risalto la profonda umanità. Abbiamo
incontrato Simone Bartolini, accompagnato dal sorprendente interprete Simon
Pietro Manzari, in un piccolo locale all’aperto sulle sponde del Tevere. Era un
tardo e assolato pomeriggio di inizio luglio.
Come nasce il progetto
del film e cosa ti ha spinto a raccontare una storia così tragica in cui è
assente qualsiasi elemento di speranza?
Il
film nasce sostanzialmente dal mio vissuto. Il mio quartiere, Città Giardino, è
quasi un isola felice. Frequentando alcune zone vicine come il Tufello, San
Basilio e Talenti, però, negli anni sono entrato in contatto con situazioni
come quelle che si vedono nel film. Non ne ho semplicemente sentito parlare, ma
le ho proprio esperite sulla mia pelle, avendo anche perso diversi amici a
causa dell’eroina. Sebbene abbia deciso di non inserire nei titoli di testa un
riferimento esplicito a queste persone, idealmente Le formiche della città morta è dedicato a loro. Il mio lavoro
tratta il tema della dipendenza dalla droga, che considero una dipendenza
dall’astrazione e dalla magia. Come diceva Pasolini, infatti, l’uso delle
droghe comporta un annullamento della sfera culturale, conoscitiva e
intellettuale, in favore di un ritorno al rito magico e al primitivismo. Ci
tengo a dire che questo film l’ho sempre pensato all’interno di un progetto più
ampio: quello di una trilogia attraverso la quale in qualche modo raccontare me
stesso e, nello specifico, tre diverse dipendenze che mi rappresentano. Il
secondo capitolo si incentrerà sul tema della violenza e, più in generale, sulla
dipendenza dell’uomo dall’istinto animale. La sceneggiatura la sto ancora
scrivendo, ma posso dire che attraverso i tre personaggi principali vorrei evidenziare
tre differenti dinamiche della violenza: la violenza che porta ad altra
violenza, la violenza necessaria e la violenza gratuita. Il terzo film sarà
invece dedicato alla dipendenza dal sesso.
A proposito di
sceneggiatura, ci puoi raccontare come si è evoluta la fase di scrittura del tuo
esordio?
Devo
dire che il film finito si è rivelato piuttosto diverso rispetto a quanto avevo
originariamente scritto. Sin dall’inizio ho concepito questo mio primo
lungometraggio come contrassegnato dalla presenza continua del numero tre (la
divisione in tre atti, il protagonista che torna a casa per tre volte e che si
fa di eroina per tre volte, le tre ragazze con cui ha rapporti, e così via).
Secondo questa logica, Le formiche della
città morta doveva dunque avere tre personaggi principali: due donne e un
uomo, che avrebbe rappresentato l’elemento di rottura tra le figure femminili.
Nel momento in cui una delle due attrici protagoniste non ha potuto più prendere
parte al film, ho deciso di cambiare la struttura della storia, concentrandomi con
maggiore decisione sulla vita del personaggio maschile e su quella che è la sua
personale parabola cristologica. Credo che in ogni mio futuro lavoro ci sarà almeno
un personaggio che seguirà una traiettoria simile. Tutti gli uomini nella loro vita
portano una croce e porre l’accento su questo aspetto è una cosa che mi
interessa molto.
A questo punto
interviene l’attore protagonista Simon Pietro Manzari, che si sofferma sulla lavorazione
del film, svoltasi all’insegna del work in progress, e sul suo rapporto con il regista: «Credo sia importante sottolineare
come l’opera abbia davvero preso forma facendola. Le modifiche e le
integrazioni apportate alla sceneggiatura durante le riprese sono state diverse.
Non c’era un vero e proprio copione precostituito da seguire alla lettera e in
più occasioni, ad esempio, mi è capitato di creare i dialoghi. Il tutto naturalmente
sotto la supervisione di Simone, con cui ci consultavamo di continuo mentre
giravamo e al quale spettava sempre l’ultima parola». Pur essendo il sesto di
sette figli di un uomo con alle spalle una decennale esperienza teatrale, Simon
Pietro fa il rapper con il gruppo Quarto Blocco e prima di Le formiche della città morta non aveva avuto esperienze professionali in ambito teatrale o
cinematografico. Eppure, fin dalle prime inquadrature del film, offre
un’interpretazione intensa e convincente. «Non è stato difficile», ammette: «Simone
ha costruito buona parte del suo lavoro e del personaggio principale su di me. Il
protagonista lo sentivo vicino e ciò mi ha senz’altro facilitato il compito, anche
se il film non è la storia della mia vita e sarebbe alquanto riduttivo dire che
mi sia limitato ad interpretare me stesso».
L’uso delle musiche ha
un ruolo molto importante. Hai pensato fin da subito a un forte legame tra il
mondo che volevi tratteggiare e il rap underground romano? Oppure anche questa
scelta è stata presa in un momento successivo?
Uno
dei miei principali punti di riferimento per il film è stato Accattone di Pasolini e quindi
inizialmente, per sottolineare la drammaticità degli eventi messi in scena,
volevo utilizzare la musica classica. Tra i compositori a cui in un primo
momento ho fatto ricorso c’erano Bach, Mozart, Debussy e Sciarrino. Nel montare
il film, mi sono però reso conto che questo tipo di soluzione non mi
soddisfaceva. Così ho pensato ad alcuni brani di musica elettronica e solo più
avanti è arrivato il rap. Prima di selezionare le musiche definitive ci sono
voluti dodici montaggi differenti. Cambiando le musiche, mi veniva naturale modificare
anche il ritmo e l’alternanza delle immagini ed è per questo che il montaggio, di
cui mi sono occupato con il direttore della fotografia Raoul Torresi, è durato
ben sette mesi e mezzo. Nella colonna sonora finale sono presenti diversi
artisti rap romani che hanno accettato di regalarmi alcuni loro pezzi. Anche
Federico Zampaglione mi ha offerto una sua canzone, L’inquietudine di esistere, eseguita dai Tiromancino in
collaborazione con Fabri Fibra.
Non deve essere stato semplice
trovare i finanziamenti necessari per un film del genere, sebbene si tratti di
una produzione a basso costo. Come sei riuscito a realizzare la prima parte
della tua trilogia sulla dipendenza?
Pur
non avendo una produzione alle spalle disposta a finanziare il progetto, ho
deciso ugualmente di provare a imbarcarmi in questa avventura. In pratica, mi
sono tuffato di testa senza vedere se c’era l’acqua sotto. Ho investito nel
film i pochi soldi che avevo da parte e ho chiesto a chiunque conoscevo dei
prestiti, riuscendo a ripagare tutti lavorando per due anni mentre mi dedicavo
al film. Poi a fase di montaggio già avviata da qualche mese, in un momento in
cui avevo terminato la disponibilità economica, fortunatamente è arrivato il
produttore Gregory J. Rossi della NeroFilm, che mi ha permesso di terminare la
post-produzione e con cui in questi mesi sto cercando tra molte difficoltà di
organizzare una distribuzione autonoma.
Articolo pubblicato nel numero 7 di Fabrique du
Cinéma (Autunno 2014)
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