Nato in Puglia a
Cisternino ma cresciuto a Bernalda, lo stesso paese della Basilicata di cui è
originaria la famiglia di Francis Ford Coppola, il trentenne Giuseppe Marco
Albano negli ultimi anni ha ottenuto un successo crescente.
Dopo
una candidatura ai Globi d’oro del 2009 con Il
cappellino e la vittoria nel 2012 del Nastro d’argento per Stand by me, nel 2013 il regista e
sceneggiatore lucano di adozione ha girato Una
domenica notte, il suo primo lungometraggio interpretato tra gli altri da
Antonio Andrisani, Anna Ferruzzo e Pietro De Silva. Qualche mese fa, grazie a Thriller, si è invece aggiudicato il
David di Donatello per il miglior cortometraggio. Abbiamo parlato con Giuseppe
Marco Albano di quest’ultimo lavoro, molto apprezzato dalla critica e presentato
in decine di festival tra il 2014 e il 2015.
Come è nata
l’idea di raccontare la storia di un quattordicenne con il sogno di diventare
famoso ballando come Michael Jackson, sullo sfondo della questione dell’Ilva di
Taranto?
Fin
da piccolo Michael Jackson è stato uno dei miei idoli e ho sempre pensato che
un giorno avrei potuto raccontare una storia che in qualche modo lo riguardasse.
Da anni inoltre avevo il desiderio di girare a Taranto, una città bellissima
che conosco bene perché vicina al paese dove sono cresciuto e tuttora vivo. Nel
periodo in cui si è iniziato a parlare della drammatica situazione dell’Ilva,
ho immaginato fosse interessante collegare questo aspetto alla vicenda di un
fan di Michael Jackson in attesa di partecipare a un talent show. Una volta buttato
giù il soggetto, ho scritto la sceneggiatura con Francesco Niccolai e così, dal
mio amore per Taranto e per Michael Jackson, è venuto fuori Thriller.
Come Stand by me, anche Thriller privilegia l’interesse per una tematica sociale attraverso
un approccio improntato perlopiù alla commedia. Quali sono, da questo punto di
vista, le tue ispirazioni cinematografiche?
Ho
studiato e amo follemente grandi autori come Fellini, Bertolucci e Truffaut,
però i miei modelli sono altri. Ho scoperto la settima arte con i film di
Castellano e Pipolo, Sergio Corbucci, Steno, così come con le pellicole che
vedevano protagonisti Bud Spencer e Terence Hill o Enrico Montesano. Poi ho
conosciuto Johnny Stecchino e Il mostro di Benigni. In generale, mi
affascina quel tipo di cinema capace di affrontare importanti temi sociali con la
leggerezza tipica di noi italiani, permettendoci di essere profondi pur non
virando necessariamente verso il dramma vero e proprio.
Tutti i tuoi
corti si concludono con dei finali surreali e, in una certa misura, sospesi. A
cosa è dovuta questa scelta?
In
effetti si tratta di una struttura che continuo a sviluppare nel corso del
tempo. In ogni mio lavoro sono presenti la componente onirica e un doppio
finale. Thriller ad esempio sarebbe
potuto finire nel momento in cui il protagonista va a ballare davanti all’Ilva interrompendo
la manifestazione. Invece, citando il celebre videoclip di Michael Jackson
diretto da John Landis, ho scelto di aggiungere la scena in cui il ragazzino
danza con gli operai trasformatisi in zombi. Spesso per l’ideazione e lo
sviluppo di un progetto mi capita di trarre ispirazione dai miei sogni ed è per
questo che i miei lavori hanno sempre degli aspetti fantastici e surreali.
A cosa ti stai dedicando
ora?
Insieme
a Dario D’Amato e Angela Giammatteo sto scrivendo un lungometraggio che spero
di dirigere il prossimo anno. È una commedia che si concentra su tematiche
sociali forti attraverso la rappresentazione del mondo degli anziani. Si chiama
Vedi Napoli e poi muori e attualmente
stiamo dialogando con diverse produzioni italiane interessate, alla ricerca di una
soluzione che mi permetta di fare il film come lo intendo io, senza doverne
stravolgere la storia.
Articolo pubblicato nel numero 11 di Fabrique du Cinéma (Autunno 2015)
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