Il
trentatreenne Simone Isola ci ha raccontato genesi e sviluppo del suo documentario
passato allo scorso Festival di Venezia, che
propone uno sguardo originale sul produttore che fece esordire Pasolini con Accattone, sostenendone la carriera fino a Edipo
Re.
Ne ha fatta di strada Simone Isola da quando l'ho intervistato una prima volta un paio di anni fa, a pochi mesi dalla presentazione alle Giornate degli Autori del Festival
di Venezia de La mia classe di
Daniele Gaglianone, prodotto con la Kimerafilm. La stessa
società, da lui fondata nel 2009 insieme a un gruppo di ex compagni del corso
di produzione del Centro Sperimentale, ha infatti recentemente prodotto Non essere cattivo di Claudio Caligari, selezionato come titolo
italiano in corsa per l’Oscar al miglior film straniero. Già nel maggio del
2013, Simone mi aveva parlato di un suo progetto legato a un documentario su
Alfredo Bini, produttore poco noto al grande pubblico nonostante sia stato una
figura molto importante del cinema italiano degli anni sessanta.
Alfredo Bini, ospite inatteso, questo il titolo del film, è stato proiettato a settembre al Lido nella sezione Venezia Classici ed è un documentario coinvolgente che racconta la storia di Bini attraverso l’inedita testimonianza di Pino Simonelli, l’uomo che lo ha conosciuto quando in tarda età era in grandi difficoltà economiche, dandogli un lavoro e una casa dove vivere. Tra Bini e Simonelli negli anni è nato un rapporto intimo e intenso che ha profondamente cambiato le vite di entrambi, portando tra l’altro il secondo ad appassionarsi alla storia del cinema.
Alfredo Bini, ospite inatteso, questo il titolo del film, è stato proiettato a settembre al Lido nella sezione Venezia Classici ed è un documentario coinvolgente che racconta la storia di Bini attraverso l’inedita testimonianza di Pino Simonelli, l’uomo che lo ha conosciuto quando in tarda età era in grandi difficoltà economiche, dandogli un lavoro e una casa dove vivere. Tra Bini e Simonelli negli anni è nato un rapporto intimo e intenso che ha profondamente cambiato le vite di entrambi, portando tra l’altro il secondo ad appassionarsi alla storia del cinema.
Come nasce
l’idea alla base del documentario e come sei venuto a conoscenza di questa
storia così incredibile e commovente?
Quando
ho iniziato a fare le mie ricerche per la tesi di dottorato su Alfredo Bini,
tramite delle amicizie, ho scoperto che viveva a Montalto di Castro. Così, a
cavallo tra il 2009 e l’inizio del 2010, sono andato a trovarlo. Dopo la morte,
avvenuta alcuni mesi più tardi, ho pensato di tornare nella provincia di
Viterbo per vedere se fosse in qualche modo possibile rintracciare documenti
utili per la mia tesi. Così ho conosciuto Pino, con cui è nata una vera e
propria amicizia e che mi ha raccontato il suo rapporto con Bini,
aprendomi la porta della casetta di campagna dove il produttore ha vissuto gli
ultimi anni di vita e facendomi vedere tutti gli scritti e gli oggetti che Bini
gli ha lasciato in eredità. La scoperta dell’incontro tra questi due uomini l’ho
vissuta come un dono e mi sono detto che avrei dovuto a tutti i costi provare a
raccontare questa storia.
Del tuo lavoro
mi ha colpito molto la struttura narrativa solida e circolare, che si avvale di
un’alternanza particolarmente felice di riprese dal vivo (le conversazioni con
Pino e le letture di Mastandrea), immagini d’archivio con protagonista Bini e
immagini tratte dai suoi film.
Mi
fa piacere che hai notato queste cose perché di solito dei documentari, anche
legittimamente, si parla soprattutto del contenuto e della storia che viene
raccontata. Ad eccezione dei momenti in cui parlo con Pino, tutti gli altri
passaggi sono stati scritti e ho sempre cercato di condurre il film dove volevo
io, nel senso che avevo trovato una chiave nel racconto moltiplicando tre piani
particolari: il piano della letture di alcuni brani del diario di Bini, che non
volevo fosse continuo ma coprisse tre momenti fondamentali (i primi anni di
vita e la formazione; l’incontro con Pasolini, che per me resta fondamentale; la
pagina letta nel finale, che è stata scritta da Bini pochi mesi prima di
morire); il piano delle interviste d’archivio, essenziali per il discorso che
volevo portare avanti; il piano più
squisitamente umano che emerge attraverso la testimonianza di Pino. Per me era assolutamente
fondamentale che tutto quanto passasse attraverso il racconto di quest’uomo,
riportando così l’aneddotica cinematografica alla chiave umana.
Quale sarà la distribuzione del documentario?
Quale sarà la distribuzione del documentario?
Dopo
l’esperienza veneziana, a novembre dovrebbe riprendere il giro dei festival e, poco
dopo, uscire al cinema con l’Istituto Luce seguendo il percorso di tutti i
documentari da loro distribuiti. Spero che verrà trasmesso anche in televisione perché
credo che, anche grazie alla storia umana che emerge, possa aiutare a fare luce
su una figura tutto sommato poco conosciuta. Certo, se un documentarista non
trova un’istituzione o una produzione che lo supporti fin dall’inizio è
veramente difficile arrivare a un risultato finale. Io il film l’ho finito unicamente
grazie alle persone che hanno creduto nel progetto e mi hanno dato una grossa
mano, come il montatore Mario Marrone, Luca Lardieri, Edoardo Rebecchi,
Gianluca Arcopinto, la stessa Kimera e associazioni culturali come Factory10. Contestualmente
alla distribuzione del documentario, comunque, stiamo lavorando a delle iniziative
parallele cui tengo molto: c’è già pronto il progetto di una mostra e di un
libro fotografico e poi vorremo pubblicare il diario e un’autobiografia di
Bini. Pino, inoltre, ha in mente di creare una fondazione che si occupi
dell’eredità culturale di Bini e di far nascere a Montalto di Castro un museo
del cinema.
Pensi di portare
avanti anche in futuro il lavoro di regista, oltre quello di produttore? Quali
sono i tuoi prossimi progetti?
Pur
essendo complesso ricoprire entrambi i ruoli, vorrei provare ad andare in
questa direzione. Come produttore adesso la cosa che mi sta a più cuore, oltre
a continuare a seguire Non essere cattivo,
è realizzare un film tratto da Il
contagio di Walter Siti, un romanzo sulle periferie romane profetico per quanto
sta succedendo in questi mesi. Ci sono già varie stesure della sceneggiatura e i
registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini dopo Et in terra pax meritano assolutamente di fare il secondo film. Vorremo
iniziare le riprese il prossimo anno. Come regista, invece, mi piacerebbe scrivere
e dirigere un documentario su Totò. Tra un anno e mezzo sarà il cinquantennale
della morte e la sua è una di quelle figure che credo debba essere riproposta alle
nuove generazioni attraverso una chiave particolare, un po’ come ho fatto con
Alfredo Bini, per evitare che vada persa.
Articolo pubblicato nel numero 12 di Fabrique du Cinéma (Inverno 2015)
Articolo pubblicato nel numero 12 di Fabrique du Cinéma (Inverno 2015)
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