mercoledì 20 gennaio 2016

"Alfredo Bini, ospite inatteso": una storia di cinema e amicizia. Intervista al regista e produttore Simone Isola

Il trentatreenne Simone Isola ci ha raccontato genesi e sviluppo del suo documentario passato allo scorso Festival di Venezia, che propone uno sguardo originale sul produttore che fece esordire Pasolini con Accattone, sostenendone la carriera fino a Edipo Re.


Ne ha fatta di strada Simone Isola da quando l'ho intervistato una prima volta un paio di anni fa, a pochi mesi dalla presentazione alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia de La mia classe di Daniele Gaglianone, prodotto con la Kimerafilm. La stessa società, da lui fondata nel 2009 insieme a un gruppo di ex compagni del corso di produzione del Centro Sperimentale, ha infatti recentemente prodotto Non essere cattivo di Claudio Caligari, selezionato come titolo italiano in corsa per l’Oscar al miglior film straniero. Già nel maggio del 2013, Simone mi aveva parlato di un suo progetto legato a un documentario su Alfredo Bini, produttore poco noto al grande pubblico nonostante sia stato una figura molto importante del cinema italiano degli anni sessanta.
Alfredo Bini, ospite inatteso, questo il titolo del film, è stato proiettato a settembre al Lido nella sezione Venezia Classici ed è un documentario coinvolgente che racconta la storia di Bini attraverso l’inedita testimonianza di Pino Simonelli, l’uomo che lo ha conosciuto quando in tarda età era in grandi difficoltà economiche, dandogli un lavoro e una casa dove vivere. Tra Bini e Simonelli negli anni è nato un rapporto intimo e intenso che ha profondamente cambiato le vite di entrambi, portando tra l’altro il secondo ad appassionarsi alla storia del cinema.


Come nasce l’idea alla base del documentario e come sei venuto a conoscenza di questa storia così incredibile e commovente?

Quando ho iniziato a fare le mie ricerche per la tesi di dottorato su Alfredo Bini, tramite delle amicizie, ho scoperto che viveva a Montalto di Castro. Così, a cavallo tra il 2009 e l’inizio del 2010, sono andato a trovarlo. Dopo la morte, avvenuta alcuni mesi più tardi, ho pensato di tornare nella provincia di Viterbo per vedere se fosse in qualche modo possibile rintracciare documenti utili per la mia tesi. Così ho conosciuto Pino, con cui è nata una vera e propria amicizia e che mi ha raccontato il suo rapporto con Bini, aprendomi la porta della casetta di campagna dove il produttore ha vissuto gli ultimi anni di vita e facendomi vedere tutti gli scritti e gli oggetti che Bini gli ha lasciato in eredità. La scoperta dell’incontro tra questi due uomini l’ho vissuta come un dono e mi sono detto che avrei dovuto a tutti i costi provare a raccontare questa storia.

Del tuo lavoro mi ha colpito molto la struttura narrativa solida e circolare, che si avvale di un’alternanza particolarmente felice di riprese dal vivo (le conversazioni con Pino e le letture di Mastandrea), immagini d’archivio con protagonista Bini e immagini tratte dai suoi film.

Mi fa piacere che hai notato queste cose perché di solito dei documentari, anche legittimamente, si parla soprattutto del contenuto e della storia che viene raccontata. Ad eccezione dei momenti in cui parlo con Pino, tutti gli altri passaggi sono stati scritti e ho sempre cercato di condurre il film dove volevo io, nel senso che avevo trovato una chiave nel racconto moltiplicando tre piani particolari: il piano della letture di alcuni brani del diario di Bini, che non volevo fosse continuo ma coprisse tre momenti fondamentali (i primi anni di vita e la formazione; l’incontro con Pasolini, che per me resta fondamentale; la pagina letta nel finale, che è stata scritta da Bini pochi mesi prima di morire); il piano delle interviste d’archivio, essenziali per il discorso che volevo portare avanti;  il piano più squisitamente umano che emerge attraverso la testimonianza di Pino. Per me era assolutamente fondamentale che tutto quanto passasse attraverso il racconto di quest’uomo, riportando così l’aneddotica cinematografica alla chiave umana.


Quale sarà la distribuzione del documentario?

Dopo l’esperienza veneziana, a novembre dovrebbe riprendere il giro dei festival e, poco dopo, uscire al cinema con l’Istituto Luce seguendo il percorso di tutti i documentari da loro distribuiti. Spero che verrà trasmesso anche in televisione perché credo che, anche grazie alla storia umana che emerge, possa aiutare a fare luce su una figura tutto sommato poco conosciuta. Certo, se un documentarista non trova un’istituzione o una produzione che lo supporti fin dall’inizio è veramente difficile arrivare a un risultato finale. Io il film l’ho finito unicamente grazie alle persone che hanno creduto nel progetto e mi hanno dato una grossa mano, come il montatore Mario Marrone, Luca Lardieri, Edoardo Rebecchi, Gianluca Arcopinto, la stessa Kimera e associazioni culturali come Factory10. Contestualmente alla distribuzione del documentario, comunque, stiamo lavorando a delle iniziative parallele cui tengo molto: c’è già pronto il progetto di una mostra e di un libro fotografico e poi vorremo pubblicare il diario e un’autobiografia di Bini. Pino, inoltre, ha in mente di creare una fondazione che si occupi dell’eredità culturale di Bini e di far nascere a Montalto di Castro un museo del cinema.


Pensi di portare avanti anche in futuro il lavoro di regista, oltre quello di produttore? Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Pur essendo complesso ricoprire entrambi i ruoli, vorrei provare ad andare in questa direzione. Come produttore adesso la cosa che mi sta a più cuore, oltre a continuare a seguire Non essere cattivo, è realizzare un film tratto da Il contagio di Walter Siti, un romanzo sulle periferie romane profetico per quanto sta succedendo in questi mesi. Ci sono già varie stesure della sceneggiatura e i registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini dopo Et in terra pax meritano assolutamente di fare il secondo film. Vorremo iniziare le riprese il prossimo anno. Come regista, invece, mi piacerebbe scrivere e dirigere un documentario su Totò. Tra un anno e mezzo sarà il cinquantennale della morte e la sua è una di quelle figure che credo debba essere riproposta alle nuove generazioni attraverso una chiave particolare, un po’ come ho fatto con Alfredo Bini, per evitare che vada persa.

Articolo pubblicato nel numero 12 di Fabrique du Cinéma (Inverno 2015)

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