Il trentanovenne
romano Gabriele Mainetti ha esordito nel lungometraggio con un film bizzarro e
originale, capace di intrattenere fondendo felicemente generi e toni. E ha sorpreso
un po’ tutti.
In Italia il cinema di genere e d’intrattenimento è il più
delle volte sinonimo di commedie nazional-popolari che, più o meno riuscite a
seconda dei casi, sono troppo spesso molto simili tra loro. In questo contesto,
dopo il fortunato caso del 2014 di Smetto
quando voglio (qui trovate la mia intervista a Sydney Sibilia per il numero 6 di Fabrique du cinéma), Lo
chiamavano Jeeg Robot rappresenta un altro importante elemento di
discontinuità. Al suo primo lavoro dietro la macchina da presa, infatti, Gabriele
Mainetti ha realizzato un film di supereroi molto sui generis ambientato in una Tor Bella Monaca dominata dalla
malavita. L’operazione è coraggiosa e risulta strettamente legata alla poetica
portata avanti dal regista sin dai pluripremiati cortometraggi Basette (2006)
e Tiger Boy (2012).
Con Gabriele, in passato anche attore per il cinema e per la televisione, abbiamo parlato della particolarità del suo progetto, delle sue passioni cinematografiche e di molto altro ancora.
Con Gabriele, in passato anche attore per il cinema e per la televisione, abbiamo parlato della particolarità del suo progetto, delle sue passioni cinematografiche e di molto altro ancora.
Come nasce l’idea alla base di Lo chiamavano Jeeg Robot e qual è il legame, per alcuni aspetti molto evidente, con i tuoi lavori precedenti da regista?
La mia collaborazione con lo sceneggiatore Nicola
Guaglianone va avanti da diverso tempo. Lui infatti, prima di scrivere insieme
a Menotti Jeeg, si era occupato del soggetto e della sceneggiatura sia
di Basette che di Tiger Boy. Entrambi siamo cresciuti con Bim Bum
Bam, che è stato per noi una sorta di baby sitter, e ci piace spesso far
riferimento al mondo dell’anime giapponese perché è come se ci offrisse
l’opportunità di entrare di nuovo in contatto con i miti della nostra infanzia.
Fin dai corti è nata così una formula che consiste nel contaminare la realtà
quotidiana romana con l’immaginario e i protagonisti di alcuni anime molto noti.
In Jeeg però abbiamo introdotto per la prima volta l’elemento “supereroico”
(il Lupin di Basette e l’Uomo Tigre di Tiger Boy non lo erano):
in questo modo abbiamo voluto proporre la nostra personale visione di un filone
cinematografico con il quale gli americani negli ultimi anni ci stanno in
qualche modo lobotomizzando.
Il protagonista del
tuo film in effetti è molto diverso dai supereroi che siamo abituati a vedere nel
cinema statunitense. In che modo se ne differenzia?
Enzo Ceccotti, oltre ad essere associato a Jeeg Robot esclusivamente
dalla fantasia della protagonista femminile Alessia (non a caso indosserà la
maschera del supereroe, fatta a maglia, solo nel finale), non vuole aiutare gli
altri perché li detesta. È un delinquente di periferia che decide di accettare
le responsabilità legate ai propri poteri dopo un lungo arco di trasformazione,
grazie allo svilupparsi del rapporto con lei. Stiamo quindi parlando di tutto
un altro contesto rispetto a quello di celebri supereroi come ad esempio Batman,
Superman o Spiderman.
Uno degli elementi in
assoluto più riusciti del film è l’alternanza dei toni drammatici e comici. In
alcuni momenti i passaggi sono anche repentini ma, grazie all’apporto della
sceneggiatura, della regia e delle interpretazioni, funzionano sempre.
In effetti quella di fondere i registri della commedia e del
dramma è un’idea che ho sempre perseguito. Per raggiungere il risultato che si
vede nel film è stato fondamentale il lavoro sui personaggi. Affinché tutto
funzioni è molto importante che risultino veri, anche nel caso abbiano tratti
marcatamente surreali o fantasiosi. All’inizio ero preoccupato dal dover trovare
il giusto equilibrio tra i due toni, ma poi tutto si è risolto ancorandomi alla
semplicità della storia e alla verità dei personaggi. Naturalmente, in questo
contesto, hanno svolto un ruolo essenziale anche gli attori del film e in
particolare i tre straordinari interpreti Claudio Santamaria, Luca Marinelli e l’esordiente
Ilaria Pastorelli. Abbiamo lavorato davvero tanto insieme per ottenere quello
che cercavamo. Claudio è una attore incredibile, oltre che un mio grandissimo
amico, e ha preso venti chili per interpretare un personaggio che gli ha pemesso
di fare qualcosa di completamente diverso. Luca, più di ogni altra cosa, mi ha
sorpreso per la capacità di far evolvere in continuazione il personaggio, anche
sul set. Ilenia invece, pur non avendo mai recitato prima, ha dimostrato un notevole
talento naturale sul quale poter continuare a lavorare.
In altre occasioni
hai affermato di essere interessato al cinema di intrattenimento e di genere più
che a quello squisitamente d’autore. Ci puoi chiarire il tuo pensiero a
riguardo?
Alla base, la mia è una concezione del cinema come intrattenimento.
Non ho nulla contro il cinema d’autore, anzi, ma non condivido l’atteggiamento
di chi parte con l’idea di fare film d’autore. A mio avviso il vero autore,
prima che qualcuno glielo faccia notare, non è neppure consapevole di esserlo. Personalmente
non nutro particolari ambizioni di far riflette lo spettatore. Quello che mi
interessa è giocare con la commistione di più generi tentando di essere
sensibile al contemporaneo, al mondo che ci circonda. Vedo quindi il genere
come uno strumento – o meglio, un multiplo strumento – con il quale raccontare la
contemporaneità.
Qual è il cinema a
cui ti senti più vicino? Le tue principali ispirazioni cinematografiche?
I momenti più felici di quando mi sono avvicinato al cinema
erano quelli in cui da piccolo guardavo a ripetizione, insieme a mio padre, i
film di Indiana Jones, 007 e quelli di Monicelli, come L’armata Brancaleone,
I soliti ignoti, Il marchese del Grillo e Amici miei. Poi,
nel momento in cui ho iniziato a studiare storia e critica del cinema
all’università, ho cominciato ad avere una conoscenza più ampia della settima
arte. In più ho senz’altro una passione sfrenata per il cinema asiatico e, in
particolare, per il cinema di Takashi Miike, Takeshi Kitano e Park Chan-wook.
Se di Miike mi diverte molto la modalità di messa in scena della violenza e
Kitano in qualche modo mi ha proprio educato al cinema, Old Boy di Park
Chan-wook è forse il mio film preferito in assoluto. Amo lo sguardo proposto
dal cinema asiatico, contraddistinto da una messa in scena potente ed elegante,
e la capacità di questi film di essere drammatici e comici allo stesso tempo.
Hai già qualche idea sul
tuo prossimo progetto?
Sicuramente voglio continuare a lavorare sulla contaminazione di diversi
generi. Attualmente ho due soggetti già pronti e un soggetto in via di sviluppo.
Ne ho già parlato con alcuni possibili collaboratori e co-produttori. Una volta
che tornerò con i piedi per terra dopo l’incredibile accoglienza ricevuta per Jeeg,
sceglierò il progetto dei tre che mi stimolerà di più, anche se dovesse
trattarsi di una cosa piccola e semplice.
Articolo pubblicato nel numero 13 di Fabrique du Cinéma (Primavera 2016)
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