venerdì 21 gennaio 2011

"Lebanon" di Samuel Maoz


La storia di Lebanon, intenso e crudo lungometraggio vincitore del Leone d’oro al festival di Venezia del 2009, è poco più di un canovaccio: è il 6 giugno del 1982, il primo giorno della Guerra del Libano, quando quattro militari israeliani all’interno di un carro armato ricevono l’ordine di scortare una truppa di soldati sino ad una cittadina da poco bombardata dalla FDI (Forze di Difesa Israeliane).
Il film è ambientato quasi esclusivamente all’interno dell’imponente mezzo bellico “Rinoceronte”, e gli abbacinanti orrori della guerra ci vengono sistematicamente presentati attraverso il punto di vista soggettivo del protagonista Shmulik, il tiratore che osserva l’inesprimibile strage attraverso il filtro del mirino del cannone. Una scelta stilistica rischiosa questa, che avrebbe potuto portare il film ad una staticità visiva non indifferente. E invece Samuel Maoz, esordiente regista israeliano, nel rappresentare i concitati momenti delle battaglie riesce a dinamizzare la messa in scena alternando sapientemente queste seducenti riprese con un funzionale ricorso alla macchina a mano. Il tutto condito da un montaggio rapido particolarmente efficace e da un’inusuale ed efficacissima insistenza, per un film di guerra, su primi piani e dettagli del viso dei quattro militari sconvolti dalle urla di persone che muoiono e soffrono disperatamente.


L’obiettivo è chiaramente quello di restituire, sfruttando appieno le possibilità del mezzo filmico, l’esperienza dell’essere umano in guerra. In Lebanon non c’è spazio per eroi solitari che partono da soli per andare a sconfiggere un esercito nemico: ci sono degli uomini che davanti all’orrore si sentono inadeguati e bloccati, che hanno difficoltà a premere il grilletto o che arrivano a gridare con  tutte le loro forze residue di voler tornare a casa dalla madre. Da questo punto di vista, il riferimento è più l’introspettivo La sottile linea rossa di Terrence Malick che l’action-movie Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg.
La pellicola di Maoz si palesa come un'allucinante rappresentazione di un giorno di ordinaria follia nella Guerra del Libano, in cui uomini uccidono continuamente e insensatamente altri uomini, essendo però prima ogni altra cosa un’opera di assoluto valore sul piano visivo. Dopo lo straordinario The Hurt Locker, ingiustamente ignorato dalla giuria nell'edizione del 2008, al festival di Venezia si è visto ancora una volta un war-movie di livello eccelso, un gradino sotto al film della Bigelow solo per quanto concerne l’impatto emotivo complessivo che ne scaturisce.
Sembra impossibile che un tale raffinato cineasta sia al suo primo lungometraggio e abbia alle spalle un solo documentario del 2000 (Total Eclipse), eppure è così. Almeno dal punto di vista formale, questo film ha avuto di gran lunga una marcia in più rispetto alle altre pellicole viste nel sessantaseiesimo concorso veneziano.


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