Vincitore del premio Un Certain Regard al festival di Cannes del 2008 e arrivato in Italia a quasi un anno di distanza dal prestigioso riconoscimento, l'esordio cinematografico di Sergei Dvortsevoy piacque molto, un po' a sorpresa, anche a quei critici americani che lo videro in quanto inserito dal Kazakistan nella lista per il miglior film straniero agli Oscar del 2009.
Il giovane Asa, concluso il proprio addestramento militare nella marina, torna nel deserto della steppa kazaka dove lo accolgono la sorella con il ruvido marito pastore e i figli. La famiglia conduce una vita nomade e semplice, ma il sogno di Asa è quello di avere un gregge di pecore tutto suo e di costruirsi, guardando al modello americano, un ranch confortevole in cui potersi godere un po' di più la vita. A tutto questo, però, può cominciare a pensare concretamente solo nel caso in cui riesca a trovare moglie: nessuno infatti è disposto a fornire un gregge ad un uomo solo, privo di una donna che si occupi di lui. Le figure femminili però nella zona in cui Asa vive scarseggiano e l'unica ragazza libera non dimostra di apprezzarlo granché, avendo da ridire sulle sue orecchie particolarmente appariscenti.
Quella di Dvortsevoy è una sorta di drammaturgia iperminimalista che porta lo spettatore a perdersi nell'immensità del paesaggio kazako, dominato dalle sconfinate e aride steppe animate da pecore, cammelli, cavalli e uomini. Certo, non siamo di fronte ad un film che intrattiene piacevolmente, ma nel caso in cui si riesca a lasciarsi andare al suo ritmo oggettivamente ostico e assai dilatato, si ha la possibilità di entrare progressivamente in un mondo lontano anni luce dal nostro, dove i drammi e i successi sono ben altri rispetto a quelli degli occidentali.
L'elemento più sorprendente è senza dubbio quello stilistico, fattore assolutamente essenziale in quanto è ciò che rende meno traumatico, per così dire, l'“inserimento” di chi guarda all'interno della storia narrata. La bellezza della fotografia di Jola Dylewska e i continui — a tratti davvero notevoli e suggestivi — movimenti della macchina da presa, infatti, colpiscono fin da subito e sembrano sapientemente calibrati per controbilanciare il procedere lento e cadenzato del film, mediante il quale il regista tenta di immergere lo spettatore nella monotona vita dei pastori della steppa kazaka. Particolarmente interessante è poi quando il sorprendente vagare della macchina da presa (difficilmente un film di questo tipo non si avvale principalmente della macchina fissa), porta Dvortsevoy a trasformare in maniera anche sofisticata inquadrature inizialmente soggettive in oggettive. E viceversa.
Tulpan è tutto sommato un buon film, che può contare su una regia ed una fotografia di ottimo livello e che saprà essere apprezzato da chi generalmente è affascinato dall'estetica filmica e dalla retorica registica. Sarebbe ingeneroso e privo di senso giudicare un film del genere appellandosi al fatto che non ha una vera e propria trama, con un'evoluzione più o meno coerente dei personaggi. Nella vita molto spesso non ci sono “grandi storie”, così come i personaggi difficilmente evolvono in modo netto: i climax nella quotidianità di tutti noi sono piuttosto rari, così come i momenti epifanici o catartici. Raccontare la vita dei pastori kazaki facendo riferimento ad un tipo di drammaturgia tradizionale avrebbe significato stravolgerla, rendendola in maniera sterile e quasi parodica. È chiaro dunque che in una pellicola come Tulpan non ci può essere spazio per snodi narrativo-emotivi particolarmente significativi, e il finale è da questo punto di vista in perfetta sintonia con il resto del film.
Non so, mi era parso il solito film "da festival", che punta tutto sul lato formale (buona la regia) e su un certo "esotismo" che lascia un po' il tempo che trova. A distanza di qualche anno (l'avevo visto appunto in una rassegna cannense) mi è rimasta in mente solo l'ambientazione così spaziosa e ventosa (e la scena del parto della pecora!), ma non ricordo più nulla dei personaggi o della storia.
RispondiEliminaSì, sicuramente è un film "da festival" e sono d'accordo con te sull'aspetto stilistico, che ho trovato di gran lunga la cosa più interessante. Dei personaggi o della storia c'è ben poco da ricordare in realtà: succede poco o nulla. In effetti, mi verrebbe da dirti che ti ricordi le cose essenziali del film. Le stesse che ho tentato di mettere in risalto nella mia recensione: aspetto formale, ambientazione della steppa kazaka messa in scena con gusto estetico, ritmi narrativi lentissimi agli antipodi della stragrande maggioranza del cinema che siamo abituati a vedere nelle sale.
RispondiEliminaDi film "da festival" (per chi ha esperienze festivaliere, "genere" spesso da temere e da prendere con le pinze) ne ho visti di molto più pretenziosi e di gran lunga meno interessanti. Questo mi è sembrato tutto sommato un buon film, come ho scritto in chiusura di recensione.