martedì 15 febbraio 2011

"Fargo" di Joel e Ethan Coen


Fargo esce nel 1996 ed è il film che consacra definitivamente i fratelli Coen (anche se dopo Arizona Junior, Crocevia della morte e soprattutto Barton Fink si erano già costruiti una solida fama nell'ambiente cinematografico), ottenendo un successo critico pressoché plebiscitario e vincendo il premio per la miglior regia al festival di Cannes e gli Oscar per la miglior sceneggiatura originale e per l'attrice protagonista (Frances McDormand). Proprio alla figura femminile interpretata dalla moglie di Joel è legato uno degli elementi di maggiore novità della pellicola: è infatti la prima volta nella storia del cinema che il detective protagonista del film (che tra l'altro entra in scena per la prima volta dopo mezz'ora) è una donna incinta.
Margie è vicina al momento del parto e si ritrova suo malgrado a indagare su un triplice omicidio avvenuto a Brainerd, Minnesota, che la porterà nel corso delle indagini fino a Minneapolis, in un negozio di macchine in cui lavora William H. Macy (che qui fornisce una delle migliori prove della sua interessante carriera).
Nel caso in cui qualche lettore non avesse ancora visto il film, preferiamo evitare di addentrarci nella trama, anche se poi questa risulta essere fondamentalmente poco più di un canovaccio, utile ai Coen per parlarci di quella perdita del senso dell'orientamento che per loro è in fondo la cifra del nostro agire collettivo in quanto esseri umani.


I personaggi che animano il film, ad eccezione della protagonista e forse solo di qualche altro personaggio secondario, sono tutti persi, rintronati, bizzarri e  rigorosamente parte integrante di quel costante sfondo spettrale che aleggia lungo l'arco dell'intera pellicola. In bilico tra tragedia e commedia, il film presenta dei dialoghi e dei momenti esilaranti (si vedano soprattutto a molte delle scene in cui è presente il personaggio di Steve Buscemi), eppure alla resa dei conti la componente tragica ha nel complesso un peso nettamente maggiore: la celebre ironia non-sense coeniana, infatti, non fa altro che acuire la sostanziale drammaticità di Fargo.
Nel corso dell’opera si fa sempre più strada, a poco a poco, una logica che rimanda a quella hobbesiana dell'homo homini lupus: ogni singolo individuo nel mondo tratteggiato dai Coen pensa egoisticamente a sé, non preoccupandosi minimamente se questo comporta calpestare la vita – o nel migliore dei casi la dignità – delle persone che lo circondano. In ogni caso, i due registi danno continuamente l'impressione di divertirsi nel decostruire il filone classico del  cinema investigativo  (in questo caso più il noir che il giallo) non solo dal punto di vista della contaminazione dei generi, ma anche e soprattutto stravolgendone il tradizionale incedere narrativo. Si pensi a questo proposito, a titolo esemplificativo, ai diversi testimoni che si perdono nel dare informazioni inutili alle autorità, incapaci di descrivere le persone che hanno visto e lasciandosi poi scappare per sbaglio un'informazione fondamentale; oppure ai fuggiaschi trovati per pura fatalità dalla polizia e non sulla base di un lucido ragionamento partito dagli indizi acquisiti nel corso delle indagini.


Doveroso accenno finale alla didascalia d'apertura in cui viene specificato che la storia cui stiamo per assistere è realmente accaduta (“[...] Su richiesta dei superstiti sono stati utilizzati dei nomi fittizi. Per rispettare le vittime tutto il resto è stato fedelmente riportato”): naturalmente non è vero,  ma con tale espediente i Coen giocano con lo spettatore facendolo interrogare sulla supposta veridicità degli improbabili eventi raccontati.

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