Presentata fuori concorso al festival di Venezia del 2007, la penultima fatica cinematografica di Claude Chabrol, deceduto lo scorso 12 settembre all’età di ottanta anni, è un lucido e disincantato viaggio all’interno dell’animo umano e delle sue molteplici e sfuggenti sfaccettature. Come in molto cinema del cineasta transalpino, anche qui l’ambiente ritratto è quello borghese (del quale vengono sottolineate per l’ennesima volta le profonde contraddizioni e ipocrisie) e l’intreccio è una sorta di semplice canovaccio in cui far vivere personaggi complicati, ambigui, mai facilmente decifrabili o etichettabili. Questa volta al centro della storia vi è un triangolo amoroso che vede protagonisti un celebre scrittore (François Berléand), una giovane e attraente presentatrice televisiva (Ludivine Sagnier) e un rampollo di una famiglia ricchissima che vive di rendita (Benoît Magimel).
Tutti i personaggi hanno i propri scheletri nell’armadio e un lato oscuro, latente, che cozza radicalmente con le apparenze (altro tema centrale della cinematografia chabroliana è proprio l’illusorietà dell’esteriorità) e la pubblica rispettabilità di ognuno di loro. Ciò che colpisce profondamente della pellicola è l’atteggiamento di Chabrol: egli non prende posizione nei confronti delle persone e delle vicende che mette in scena, limitandosi a descrive nel modo più distaccato e freddo possibile, senza alcun tipo di moralismo, un mondo le cui cifre dominanti sono la finzione e l’inganno. La regia, come sempre, è essenziale e assai funzionale alle esigenze narrative ed espressive. Frutto di una concezione del cinema come momento di riflessione, L’innocenza del peccato è un film piuttosto interessante e stimolante, anche se di certo aggiunge ben poco al lavoro del maestro francese.
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